Storie di mafie, convivenze e malaffare in Emilia-Romagna
Il nuovo dossier sulle mafie in Emilia Romagna pubblicato pochi giorni fa, “Tra la via Aemilia e il West”, racconta di una terra in cui l’infiltrazione mafiosa è ormai ordinaria. “L’omertà che di solito s’imputa al sud – denuncia Franco, figlio di Pio La Torre – si è verificata anche nella vostra regione. Si è preferito non vedere, anche da parte delle istituzioni. C’è una forte responsabilità istituzionale nelle infiltrazioni della ’ndrangheta che ha trovato terreno fertile in una regione ricca come questa”.
Leggenda vuole che, nei primi anni Settanta, quando Gaetano Badalamenti, capo della cosca palermitana di Cinisi, condannato nel 2002 come ordinante dell’omicidio di Peppino Impastato, risiedeva a Sassuolo, al confino di polizia come criminale pericoloso per la società, una centoventotto rossa andasse e venisse da Bologna ogni venerdì, per portare a don Tano il pesce fresco della Sicilia, che doveva essere cucinato il giorno stesso e offerto a tutti gli ospiti dell’albergo Leon d’oro, nel cui attico risiedeva il boss. Il Sassolino, noto giornale locale, in un articolo del giugno 2006 a firma Bedini e Martignoni, ce lo racconta come una personalità altamente rispettata a Sassuolo in quegli anni di soggiorno obbligato: “un uomo che non rideva mai, una persona elegante, dai modi distinti, educato e generoso con tutti” e, inoltre segnala, sondando la percezione dei sassolesi all’epoca, che “la presenza del boss sul nostro territorio non ebbe nessun effetto visibile; non procurò mai fastidi e non tentò di organizzare attorno a sé una rete malavitosa, nonostante i legittimi timori della polizia e dei politici locali”. Come ci informa il nuovo dossier sulle Mafie in Emilia Romagna, “Tra la via Aemilia e il West“, nato dalla collaborazione tra giornalisti, AdEst, Gruppo dello zuccherificio, Gruppo Antimafia Pio La Torre e Rete, secondo la Criminalpol, Tano Badalamenti dal ’74 al ’76 gestì da Sassuolo i traffici illeciti in tutta la provincia di Modena.
Oggi che l’inchiesta Aemilia ha portato a giudizio almeno 239 persone, l’analisi del fenomeno mafioso in Emilia Romagna parte proprio dalla legge sulla sorveglianza speciale del 1956, aggiornamento del confino fascista, che ha aperto le porte del territorio emiliano ad una mafia in giacca e cravatta, riscontrando la stessa famigerata omertà delle terre meridionali. “Quello che di solito s’imputa al sud, l’omertà, si è verificata anche nella vostra regione. Si è preferito non vedere, anche da parte delle istituzioni. C’è una forte responsabilità istituzionale nelle infiltrazioni della ’ndrangheta. Si è avuto paura di denunciare perché c’era una struttura già operativa che ha trovato terreno fertile in una regione ricca come questa”, dichiara a gran voce Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, il segretario del Pci siciliano ucciso dalla mafia nel 1982 a Palermo, inaugurando il 31 gennaio 2015 uno sportello per la legalità all’Interporto di Bologna. Dunque, non solo questione meridionale intrecciata a questione mafiosa, ma nessuna distinzione nord/sud di fronte ai facili profitti derivanti da attività delittuose, soprattutto in epoca di crisi economica. “L’Emilia Romagna è terra di mafia”, afferma perentorio il procuratore antimafia Roberto Pennisi, ed è ora di farsene una ragione. Le ‘ndrine, cosche della ‘ndrangheta calabrese, e in particolare quella cutrese, guidata dal leader Nicolino Grande Arcari, hanno allungato le mani sul Nord Italia ed è proprio da questo che ricevono gran parte degli introiti, a cui l’Emilia Romagna contribuisce per ben l’8%.
Come è stato possibile arrivare a questo punto? Si chiedono ancora quelli che non hanno dimestichezza con le capacità mimetiche e trasformative della criminalità organizzata, quelli che ancora hanno in mente la figura del mafioso sanguinario, con la lupara in mano e la coppola in testa. A tal proposito, è interessante seguire il percorso di Giacomo Riina, ben delineato nel dossier “Tra la via Aemilia e il West” dalla penna di Gaetano Alessi e Massimo Manzoli. Il cugino di Totò Riina, Zu Giacomo, arriva a Budrio (BO) nel 1967 e, nei ritagli di tempo avanzati al narcotraffico, al traffico di armi, denaro ed esplosivi, diventa consulente per la ditta Centroflex, trapiantata a Budrio. Se non che i proprietari della ditta, i fratelli catanesi Commendatore, vengono ben presto coinvolti e condannati per mafia, sequestro di persona e persino stupro. Ma, in fondo, basta cambiare il nome della ditta e trasformarlo in Eminflex, oggi colosso della vendita dei materassi, per entrare nel cuore degli italiani, almeno stando alla viva voce di Giorgio Mastrota.
Molti imprenditori accolgono a braccia aperte i mafiosi e il dossier è un vero atto d’accusa che condanna, in primis, la società civile e gli stessi imprenditori che ingrassano le mafie consegnando milioni di euro ai mafiosi “giusto per fargli capire che non c’era bisogno di nessuna opera di estorsione, tanto gli imprenditori si estorcevano da soli!”, poi lo Stato, lentissimo nelle sue reazioni, e persino l’autorità intoccabile della Chiesa, per cui Salvo Ognibene, nell’ultimo capitolo del dossier, può chiedersi: “La storia dell’Emilia Romagna sarebbe potuta essere diversa se la Chiesa avesse avuto maggiore consapevolezza del fenomeno mafioso? Probabilmente sì”.
Nell’intero capitolo dedicato alla Cpl Concordia, poi, che si avvale delle ordinanze di custodia cautelare del tribunale di Napoli, ci spiega molto bene Antonio Iovine, pentito ex boss dei Casalesi, come “sia lui sia Zagaria avessero dismesso, salvo necessità ed in circostanze particolari, l’abito di camorristi che con la prevaricazione e con la violenza si insediavano nel tessuto economico e nelle amministrazioni locali ed indossato, invece, quello dell’imprenditore mafioso, avvalendosi di un gran numero di imprenditori edili a cui fornivano appoggio, protezione ed il mandato ad operare nel territorio come loro diretta espressione” allo scopo di “raggiungere risultati ben maggiori rispetto a quelli conseguiti con le attività violente” e, a proposito della Cpl Concordia: “Devo dire che noi abbiamo trovato terreno fertile con le imprese, anche grandi, che venivano da fuori zona e prendevano appalti. Quando ci siamo presentati per esempio a trattare con la Concordia per la realizzazione della rete del gas, abbiamo trovato facilmente un accordo nell’interesse di tutti”. Certo la Cpl Concordia avrebbe potuto denunciare, ma avrebbe perso l’ottimo affare della metanizzazione di ben sette comuni dell’Agro Aversano, guadagnata appunto con accordi di natura economica e non sulla scorta obsoleta di minacce o violenza.
I giornalisti che hanno denunciato per primi la collusione economia-mafia sul territorio non hanno avuto vita facile, si pensi al giornalista/vigile urbano Donato Ungaro, messo a tacere e licenziato dal comune di Brescello (RE) nel 2000, o al caso di Stefano Santachiara, vittima di isolamento e minacce per aver denunciato il caso Serramazzoni, comune dell’Appennino modenese commissariato nel 2012, che ha visto, nell’ordine, le dimissioni del sindaco PD Fornari, indagata per concussione, corruzione e abuso d’atti d’ufficio; il processo ai danni dell’ex sindaco PD con mandato decennale, Ralenti, che lo vede in compagnia di due nomi di spicco delle cosche di Gioia Tauro, i Baglio, padre e figlio, giunti l’uno per soggiorno obbligato trent’anni prima e l’altro per affari successivamente. Costoro avrebbero realizzato, infatti, a Serramazzoni, il nuovo polo scolastico e lo stadio, come svelano le intercettazioni degli incontri col sindaco Ralenti. Il tutto con corredo classico di incendi dolosi, lettere di minaccia e teste di capretto. Salvo la caduta progressiva di quasi tutte le indagini o l’oblio delle lungaggini giudiziarie. In ultimo, impossibile non ricordare il caso balzato alla ribalta della cronaca nazionale del giornalista sotto scorta Giovanni Tizian.
Qualcuno prova ancora a ribattere che la mafia in Emilia sia “un fatto occasionale” ma, solo per restare nella provincia di Modena, il caso del comune di Finale Emilia, guidato dal piddino Fernando Ferioli, per poco scampato allo scioglimento nell’ottobre 2015, a causa di mancati controlli antimafia per l’affidamento di lavori pubblici prima e dopo il sisma e la certezza di almeno due ditte direttamente legate alla criminalità organizzata di tipo mafioso, e quello del comune di Sassuolo, dove Giuseppe Megale, capogruppo del PD in consiglio comunale e capo della Polizia Municipale di Castellarano, è stato raggiunto da un avviso di garanzia per aver ottenuto presunti favoritismi elettorali da soggetti accusati di estorsione e usura che avrebbero portato all’elezione del sindaco PD Pistoni, dicono chiaramente che è ora di svegliarsi. Appare difficile, in questo quadro, accettare le scuse del distratto Graziano Delrio, attuale Ministro delle infrastrutture che, sindaco di Reggio Emilia nel 2009, non sapeva delle infiltrazioni mafiose nella sua città, però si recava in campagna elettorale a Cutro e rendeva omaggio alla madonna dei mafiosi. Così come il suo successore, Luca Vacchi (PD), non sapeva che la moglie Maria Sergio, ex dirigente del servizio pianificazione e qualità urbana del Comune di Reggio dal 2004 al 2014 e attuale dirigente del settore pianificazione territoriale e trasformazioni edilizie del Comune di Modena, avesse acquistato la loro casa da una società che faceva capo a Francesco Macrì, crotonese finito agli arresti nell’operazione Aemilia con l’accusa di essere un prestanome dell’associazione mafiosa Grande Aracri. I coniugi hanno taciuto questa verità per più di un anno, cosa che ha fatto invocare le dimissioni di entrambi e anche di Delrio, che non poteva essere all’oscuro di ciò che accadeva in comune, dai banchi del Movimento 5 stelle sulla base del dubbio: “Come potevano non sapere?”. Richiesta respinta dal Sindaco Muzzarelli.
Noi non possiamo permetterci più di non sapere se, stando ai dati emersi nel dossier di riferimento, “Tra la Via Aemilia e il West”, veniamo a conoscenza del fatto che “Per Sos Impresa in Italia il racket dell’usura coinvolgerebbe 200 mila commercianti, di cui 8.500 solo in Emilia Romagna, con un giro di affari di un milione di euro in regione. Nel rapporto Eurispes 2015, l’Emilia Romagna vede triplicare i reati di “strozzo”, cresciuti del 219% in soli due anni, passando dai 21 del 2011 ai 67 del 2013, con 31 denunce e 43 vittime accertate. A Bologna, nel 2014 si sono registrate 23 estorsioni ogni 100 mila abitanti. Un dato che pone il capoluogo emiliano al quarto posto nazionale”, inoltre “la Dia ha evidenziato che non c’è provincia o zona della regione che non sia contaminata dal nesso inscindibile tra gioco d’azzardo, indebitamento e successiva estorsione e usura” e, se non bastasse,”da agosto 2014 ad agosto 2015 i beni sequestrati in Emilia Romagna risultano 696, quelli confiscati 355, per un valore di 36 milioni di euro: un risultato che pone la regione al quarto posto in Italia dopo Sicilia, Calabria e Campania e prima di Puglia e Lazio”.
Intanto, negli ultimi giorni, le cosche hanno forse tremato alla notizia del presunto pentimento, direttamente dal 41 bis, di Giuseppe Giglio, crotonese conosciuto per essere “la cassaforte di Nicolino Grande Aracri”, un vero imprenditore mafioso, che potrebbe essere il primo pentito di Aemilia e il primo a salvarsi dalla condanna richiesta, proprio in questi stessi giorni, a vent’anni di carcere. Forse pian piano verrà tutto a galla, nel frattempo noi società civile, mentre ammiriamo le tele della Pinacoteca di Bologna, i marmi ripuliti di Piazza Maggiore, o passiamo accanto alle case popolari di Reggio Emilia e Modena per recarci all’aeroporto di Bologna, teniamo gli occhi ben aperti, perché, in tutti questi appalti, c’è la firma della mafia.
L’immagine di copertina fa il verso a quella famosa del luglio 1997 che il settimanale tedesco Der Spiegel dedicò all’Italia, provocando, all’epoca, enormi polemiche.