di Claudio Cordova – “A Roma non c’è un potere unico. Non è Palermo, sotto questo profilo, né tanto meno Reggio Calabria. Ci sono tanti poteri, tanti centri di interesse, tanti centri economici. Ovviamente, la gran parte è legale, ma ci sono quelli che sono illegali o che hanno la tentazione dell’illegalità. Certamente non siamo di fronte a qualcosa di uguale al fenomeno milanese. L’ho già detto: 25 locali in Lombardia non credo che li troveremo a Roma e dintorni e neanche al sud ci sono 25 locali. C’è una realtà economica diversa, come giustamente diceva la presidente, perché non c’è tanto un’impresa, quanto un’attività commerciale. Inoltre, ci sono anche tutte quelle attività dipendenti e in qualche modo intrecciate col pubblico”. A distanza di due anni dall’insediamento a capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone traccia un primo bilancio sulla presenza e sulla pervasività delle mafie nella Capitale. Lo fa, accompagnato dal procuratore aggiunto, Michele Prestipino, al cospetto della Commissione Parlamentare Antimafia, presieduta da Rosy Bindi.
Un percorso analogo, quello di Pignatone e Prestipino: Palermo, Reggio Calabria e adesso Roma. Al pari di un folto numero di ufficiali di polizia giudiziaria che costituiscono la “squadra” che ha operato in Sicilia e in Calabria e che, adesso, si è spostata nella Capitale. Un nome su tutti, quello del Capo della Squadra Mobile, Renato Cortese.
Un lavoro, quello esposto dal procuratore Pignatone, che si sarebbe dipanato sul duplice fronte: la verifica della sussistenza di cellule organizzate dai connotati mafiosi e l’aggressione ai patrimoni illeciti delle mafie stesse. A Roma e nel Lazio, infatti, insistono infiltrazioni di tutte le consorterie criminali: “Di fronte a una realtà come questa, che non è certamente quella di Palermo, dove nessuno può mettere in dubbio che esista cosa nostra con le sue caratteristiche, ci vuole un approccio laico. Non possiamo né escludere a priori che ci siano organizzazioni mafiose presenti in modo strutturato, né dire necessariamente che a Roma c’è la mafia o, come riportano alcuni titoli di giornale, domina la mafia” dice il procuratore Pignatone. L’attività di ricerca sarebbe stata messa in atto secondo i criteri dello scambio di informazioni all’interno della Procura e, nello specifico, della Dda, ma anche attraverso la collaborazione tra le varie forze di polizia giudiziaria: traffico di droga, riciclaggio di denaro e investimenti patrimoniali le direttrici su cui si muove l’Ufficio di Piazzale Clodio. “Quello che conta, al di là del numero, sono i capitali, ovvero il valore dei beni sequestrati. Anche qui abbiamo moltiplicato i risultati, grazie allo sforzo delle forze di polizia, passando da pochi milioni ad alcune centinaia di milioni di euro come valore di beni sequestrati, sia a Roma città, sia nel Lazio, sia, in grande misura, investiti altrove. I clan interessati sono sia calabresi, in particolare la cosca Gallico con alcuni prestanome, sia napoletani, soprattutto esponenti collegati al clan Mallardo. Le attività oggetto di sequestro sono state imprese edili, molte attività commerciali anche di prestigio, concessionarie auto e beni immobili, sia terreni, sia edifici, anche in gran numero” afferma Pignatone. Fior di milioni che circolano – spesso in maniera illecita – camuffandosi nel tessuto economico e sociale della Capitale: “A Roma tutto questo, rispetto a realtà come Palermo e Napoli, è più facile, in quanto vi è la convinzione diffusa che la mafia a Roma non esista. Il fatto che ci siano capitali largamente disponibili in una realtà, per fortuna, ancora, nonostante tutto, ricca, grande e multiforme come Roma non è, di per sé, elemento di sospetto, mentre, se ci fossero 100 milioni di euro investiti a Reggio Calabria, subito uno si chiederebbe che cosa c’è dietro. Sotto questo profilo si capisce perché Roma sia una sede privilegiata per questo tipo di investimenti” spiega Pignatone.
Fiumi di denaro, che, ovviamente, circolano anche grazie alla presenza dei “colletti bianchi”, i professionisti al servizio dei clan e del malaffare: “Il primo collegamento verosimilmente può essere rappresentato da tutti quei professionisti di vario tipo (commercialisti, tributaristi, avvocati, ingegneri) che sono necessari per effettuare investimenti di denaro di provenienza illecita, sia che esso venga dalle mafie, sia che esso venga da attività quali la corruzione, la bancarotta fraudolenta e via elencando” afferma Pignatone. Passaggio inevitabile quello svolto sia da Pignatone, che da Prestipino, sul “Cafè de Paris”, il locale della “Dolce Vita”, ritenuto nella disponibilità delle cosche della ‘ndrangheta. I due magistrati hanno ricostruito le dinamiche che hanno portato all’acquisizione del locale di via Veneto da parte dei calabresi: “Ma allora non hai capito: a Reggio Calabria si vuole così” diranno alcuni personaggi di fronte alla riluttanza del vecchio proprietario.
E’ la “zona grigia”, su cui si intrattiene particolarmente il procuratore aggiunto Michele Prestipino: Non c’è mafia vera, che sia cosa nostra, che sia ‘ndrangheta, che sia camorra, la quale nel corso del tempo – quando dico “tempo”, possiamo partire senz’altro dall’unità d’Italia – non abbia avuto rapporti con la politica, con la pubblica amministrazione e con gli apparati. Questa non è una variabile. È un elemento strutturale di come l’organizzazione è presente, esiste e opera.
Se noi vogliamo ricostruire questa rete relazionale, che è importantissima, perché senza la ricostruzione di questa rete poi l’azione di contrasto è un’azione – per carità – meritoria, ma certamente spuntata e non efficace come potrebbe essere, l’unico metodo verificato è quello di partire dal cuore dell’organizzazione, cioè dalle condotte degli associati, degli affiliati mafiosi, e del loro sistema di rapporti, per estendere le indagini da quel cuore verso l’esterno e dal basso, procedendo dal livello dell’organizzazione ai livelli più alti. Si va, quindi, dal basso verso l’alto e dall’interno verso l’esterno. Mi permetto di dire – davvero con il massimo dell’umiltà, perché sono processi che abbiamo seguito e curato, ai quali ho anche preso personalmente parte quando ero alla procura di Palermo e alla procura di Reggio Calabria – che, quando c’è stata condanna definitiva di alcuni soggetti che vogliamo definire colletti bianchi, politici, pubblici amministratori, ci si è arrivati esattamente seguendo questo metodo, quello che dicevo prima”.
Ma è il territorio di Ostia quello ad attirare di più l’interesse dei magistrati, anche alla luce della sua “effervescenza” criminale: “Per la prima volta, nel territorio di Roma Capitale è stata provata, secondo noi e secondo quelle che sono, allo stato, le risultanze processuali – non abbiamo sentenze definitive perché abbiamo cominciato da poco – la presenza di due organizzazioni mafiose strutturate ai sensi dell’articolo 416-bis” dice Pignatone. Su quel territorio, come spiegato da Prestipino, vi sarebbero due gruppi distinti: “Il primo è un gruppo che ha un radicamento storico e che storicamente, davvero da tantissimi anni, ha funzionato e opera come proiezione su un territorio extraregionale, fuori dalla Sicilia, di una famiglia mafiosa siciliana storicamente radicata e riconosciuta in passato come di grandissima potenza e potenzialità offensive mafiose, la famiglia Caruana-Cuntrera, che ha da sempre operato nell’area dell’agrigentino. Questo gruppo, che opera su Ostia, ha al vertice dei componenti, persone fisiche, che hanno con i Caruana e i Cuntrera dei legami storicamente accertati, legami non soltanto personali, ma anche dal punto di vista di interessi economici e patrimoniali. Questi legami li hanno mantenuti nonostante da tantissimi anni i Caruana e i Cuntrera siano lì ad Agrigento, mentre questi signori si sono stabilizzati e radicati sul territorio di Ostia. Contemporaneamente a questo gruppo, che noi possiamo inquadrare nel paradigma che io chiamavo proiezione di un’organizzazione conosciuta e radicata altrove, ha operato sul territorio di Ostia un altro gruppo. Anche a questo secondo gruppo è stata effettuata la contestazione del reato di cui all’articolo 416-bis, ma, e questa è una novità, si tratta di un gruppo che ha origini assolutamente autoctone. Tale gruppo non ha alcun legame con organizzazioni mafiose di tipo tradizionale, cioè cosa nostra, ‘ndrangheta e gruppi di camorra, ma al proprio interno ha assunto una strutturazione tipica dell’organizzazione mafiosa, opera in settori di privilegio e di intervento tipici dell’attività di chiara matrice mafiosa, come vedremo, e persegue i propri obiettivi e realizza i propri interessi con il metodo mafioso […] Se noi potessimo cancellare la collocazione geografica di questi soggetti su Ostia e immaginarli in un’area territoriale della provincia di Reggio Calabria o della provincia di Palermo, di Trapani o di Agrigento, potremmo non cambiare nulla”.
Ma l’obiettivo di Pignatone e Prestipino è quello di mettere un nuovo punto fermo nella storia giudiziaria del contrasto alle mafie nel territorio romano: “Restando strettamente all’oggetto organizzazioni di stampo mafioso, finora emerge che non c’è una presenza strutturata come può essere quella di Napoli, Reggio Calabria o Palermo, ma non c’è neanche un fenomeno come quello osservato in Lombardia, ossia la presenza di una serie di cosche di ‘ndrangheta strutturate esattamente come nella provincia di Reggio Calabria e con quelle in contatto”.
Ecco l’ipotesi della “quinta” mafia”, che l’aggiunto Prestipino definisce così: “Un’espressione estremamente suggestiva e anche bella, per la verità. Tuttavia, parlare di “quinta mafia” con riferimento a Roma e al Lazio implica un giudizio finale al quale, come diceva prima il procuratore, ancora noi dobbiamo certamente pervenire, anzi – lo dico in tutta franchezza e umiltà e perché mi piace restare aderente ai fatti – da cui siamo ben lontani. Parlare di quinta mafia significa che questa sarebbe una quinta mafia, come cosa nostra e la ‘ndrangheta. Siamo già in presenza di un’organizzazione stabilizzata, con regole, vertici e strutture. Da un punto di vista dei fatti acquisiti possiamo dire che noi abbiamo certamente elementi che ci fanno pensare che ci sia forse più di un gruppo autoctono che si atteggia e che si è organizzato secondo schemi, metodologie, obiettivi e attività propri delle mafie. Sicuramente sono più di uno questi gruppi e il problema non riguarda solo Ostia, ma è tutto da esplorare il terreno delle interrelazioni tra questi gruppi, degli eventuali rapporti, dell’eventuale presenza di regole di interazione, di accordo e di simbiosi operativa.
Io credo che noi questo lo dobbiamo tenere presente prima di arrivare a un giudizio conclusivo che implica una valutazione su tutti questi dati e che è senz’altro un passo in avanti”.
Insomma, Pignatone e Prestipino vogliono fare a Roma quello che hanno fatto a Reggio Calabria. Creare un “giudicato” solido che possa certificare non solo la presenza delle mafie nella Capitale e nei suoi dintorni, ma anche spiegare dettagliatamene le caratteristiche del fenomeno. Inevitabile, quindi, il passaggio sull’indagine “Crimine”, bistrattata sul territorio calabrese, ma guardata con rispetto, quasi con ammirazione in ogni parte d’Italia: “Quello che è avvenuto a Milano gioca a favore anche della comprensione di Roma. Il fatto che – ormai credo sia una convinzione non dico unanime, ma abbastanza diffusa in tutta Italia – bisogna porsi il problema se ci sono le mafie e che cosa fanno le mafie fuori dalle regioni tradizionali, in cui il punto più importante, io credo, è stata l’operazione “Crimine” fatta da Reggio Calabria e Milano, che ha avuto un impatto sull’opinione pubblica qualificata e meno qualificata imponente, che continua, secondo me, aiuta a porre il problema. Questo ci aiuta a capire il problema e, laddove c’è, a dare una risposta positiva o negativa, sia a livello di giudici, di magistrati, di pubblica accusa e ancora più di giudicante, sia a livello di opinione pubblica generale, anche nelle altre regioni. Finora, invece, tutto sommato, si è ritenuto che quello delle organizzazioni mafiose fosse un problema marginale in una realtà come Roma”.