Quest’ultima valutazione può essere supportata da elementi risultanti dai rapporti dell’Autorità di P.S., purché si tratti di elementi obiettivi e specifici e non di generiche affermazioni di condotte in ordine alle quali non si indichino riscontri probatori. È inoltre fondamentale che i dati rilevati non risultino suscettibili di prova contraria e che non vengano smentiti con riferimento alla specifica fattispecie di pericolosità(61). Suole distinguersi la sorveglianza speciale c.d. semplice dalla sorveglianza speciale qualificata: il provvedimento, in quest’ultimo caso, è accompagnato dal divieto o dall’obbligo di soggiorno. In realtà, mentre si tende ad affermare che il divieto costituisce mero accessorio della sorveglianza, sull’obbligo di soggiorno sussistono prevalenti orientamenti a favore di un riconoscimento dell’autonomia dell’istituto. Ciò è coerente, in effetti, con la modifica dell’art.3 L. 1423/1956, che in origine prevedeva il caso in cui alla persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. dovesse essere imposto l’obbligo di soggiorno in un determinato comune e che attualmente sancisce l’applicabilità in via residuale dell’obbligo di soggiorno, quando le altre misure non siano considerate idonee.
Quanto all’esame delle singole misure qualificate, il divieto di soggiorno, che non è applicabile alle persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso ed assimilate, è adottato quando lo postulino le circostanze del caso e non riguarda soltanto la residenza e la dimora, ma anche, appunto, il semplice soggiorno. La finalità, come suggeriscono gli orientamenti giurisprudenziali, è quella di impedire ogni forma di ritorno nel territorio, comprese le brevi soste(62). Gli unici casi in cui l’interessato può fare ritorno temporaneo nei luoghi che gli sono impediti sono legati ad esigenze di necessità ed umanità purché, stante l’interpretazione analogica dell’art.7 bis L. 1423(63), il giudice abbia rilasciato apposita autorizzazione. La norma è evidentemente riconducibile ai valori etico-sociali tutelati dall’art. 32 Cost., che qualifica la salute non soltanto come fondamentale diritto dell’individuo ma quale interesse della società. In precedenza, la sorveglianza speciale con divieto di soggiorno perseguiva l’intento di allontanare il soggetto dal suo ambiente criminogeno, con lo scopo di comprimere la sua propensione a commettere reati(64).
Questa necessità di recisione avrebbe costituito, tra l’altro, l’unico effettivo elemento di differenziazione tra questa misura e la sorveglianza semplice. Tuttavia, il timore che i fenomeni di criminalità si trapiantassero in realtà diverse da quella dell’interessato e il puntuale realizzarsi di tale prospettiva hanno indotto il legislatore (L. 256/1993) ad abrogare la previsione del divieto di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale. L’opportunità di incidere sul collegamento del soggetto con il proprio ambiente, per impedirgli di frequentare i luoghi che hanno causato o comunque favorito la sua pericolosità, aveva nella pratica originato nuove dinamiche delinquenziali, caratterizzate dalla riorganizzazione e dalla penetrazione su nuovi territori di fenomeni criminali ancora più subdoli.
Per quanto concerne l’altra misura qualificata, l’obbligo di soggiorno, la legge 327/88 ha limitato la sua applicabilità escludendo la possibilità che essa venga disposta per un comune diverso da quello di residenza o di dimora abituale. Essa continuava tuttavia ad essere prevista in alcuni casi. Infatti con l’art. 20 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla L. 12 luglio 1991, n. 203 veniva modificato il testo dell’art. 2 L. 575/65, stabilendosi che “nei confronti delle persone pericolose cui possono essere applicate le misure patrimoniali ed interdittive previste dalla presente legge, quando la misura della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o dimora abituale non sono ritenute idonee, può essere imposto l’obbligo di soggiorno in un altro comune o frazione di esso, ricompreso nella stessa provincia o regione e che sia sede di un ufficio di polizia”. Con l’art. 22 d.L. 8 giugno 1992, n. 306, nel testo introdotto con le modifiche apportate dalla legge di conversione 7 agosto 1992, n. 356, l’art. 2 L. 575 è stato sostituito con nuove disposizioni in base alle quali, pur essendo generalmente circoscritto l’obbligo di soggiorno al comune di residenza o di dimora abituale, ricorrendo eccezionali esigenze di tutela sociale o di tutela dell’incolumità della persona interessata, il soggiorno obbligato poteva essere disposto anche in una località, indicata dal Questore, che garantisse la sicurezza. Successivamente, con l’ulteriore modifica apportata dall’art. 1, comma 2, L. 256/1993, la disposizione appena citata veniva abrogata, sicché resta esclusa, in ogni caso, la possibilità di irrogare l’obbligo di soggiorno in un comune diverso da quello di residenza o di dimora abituale della persona pericolosa.
L’excursus normativo, articolato e denso anche in riferimento al breve periodo in cui si è dispiegato, se da un lato evidenzia il tentativo del legislatore di realizzare la maggiore aderenza possibile all’irrequieto divenire del crimine, in particolare di quello organizzato, per contro denuncia le difficoltà che talvolta gli stessi operatori devono affrontare per districarsi in un impianto normativo caratterizzato da intrinseca complessità. Quanto all’accertamento della pericolosità, fermi restando i principi enunciati in altra parte del presente lavoro, esso comporta una valutazione rigorosamente soggettiva, che prescinda dalla gravità dei reati addebitati, la cui natura oggettiva ed astratta non consente di affermare se l’individuo ha i connotati cui la legge ricollega l’applicazione delle misure stesse(65). In particolare, si riteneva che tale pericolosità dovesse essere di grado più elevato non solo della sorveglianza c.d. semplice, ma anche di quella con divieto di soggiorno. Essa era applicabile quando le altre fossero state valutate come insufficienti ad assicurare la tutela della sicurezza pubblica. La legge richiedeva una grave pericolosità, intesa non tanto in riferimento al grado di temibilità dell’individuo, quanto ai connotati di tale pericolosità, rapportata alle condizioni ambientali in cui essa aveva modo di manifestarsi(66).
L’altro presupposto, costituito dall’inidoneità delle altre misure, era comunque da valutare caso per caso, in relazione alla personalità e alla situazione ambientale, anche in riferimento all’esistenza in loco di fenomeni di criminalità organizzata. Ciò indicava il carattere residuale, dovendo il giudice applicare la misura meno gravosa(67). Tale qualificato presupposto sembra essere venuto meno, rendendo incerto l’ambito di operatività dell’obbligo di soggiorno, che pur tuttavia rimane, per indicazione normativa, l’extrema ratio (art. 3, comma 3 L. 1423). Ciò non implica, pertanto, la maggior gravità della misura in esame. Si tratta, in altri termini, di correlare l’esigenza di applicare la misura meno gravosa con le capacità preventive dei singoli istituti, prescindendo per ciò stesso da valutazioni aprioristiche(68). In definitiva, il divieto può considerarsi irrogabile quando, in base ad un giudizio di graduazione, la pericolosità può essere controllata allontanando il proposto dalle zone di territorio diverse da quelle di residenza o di dimora abituale, che per le relazioni ambientali favoriscono l’esplicarsi della pericolosità.
Se invece quest’ultima postula necessariamente che il controllo si attui circoscrivendo la presenza in un determinato territorio, sarà legittima l’applicazione dell’obbligo di soggiorno. In definitiva, la scelta non caratterizza la gravità della misura, ma soltanto il dispiegarsi dei suoi effetti in relazione all’obiettivo di prevenzione che essa si pone. Se in base a questa impostazione l’obbligo di soggiorno non costituisce misura più grave ma solo diversa da quella del divieto, la precedente disciplina normativa di quest’ultima poteva far addirittura ritenere che fosse proprio il divieto ad avere connotati di maggior severità. Quando infatti il divieto era applicabile nei comuni differenti da quelli di residenza e dimora, si riscontrava una illogicità nella scelta del legislatore del 1988 che, se da una parte configurava una misura teoricamente più afflittiva, l’obbligo di soggiorno, di fatto rendeva il divieto più severo, potendo comportare l’allontanamento dai luoghi di residenza o dimora abituale.
In realtà appariva difficilmente collegabile il requisito della maggior pericolosità di un soggetto e l’applicazione dell’obbligo del soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale. Da qui si evince come la motivazione fosse determinante per dare ragione dell’applicazione dell’una o dell’altra, potendosi ricavare che la scelta non dipendesse, in realtà, da un diverso grado di pericolosità, ma dall’opportunità di sottoporre il soggetto all’obbligo di soggiorno, con possibilità di controllo – ma con il rischio che i legami con l’ambiente non venissero recisi – o al divieto, che, viceversa, comportava un minor controllo. La scelta dipendeva da una valutazione caso per caso che quindi, se rendeva la legge 88/327 criticabile per aver alterato il rapporto di continenza tra il divieto e l’obbligo, consentiva comunque ricadute positive sul piano pratico.
Approfondimenti
(61) – Cass. pen. Sez. I, 22.2.1988, in GIUST. PEN., 1988, III, 462 e segg.
(62) – Cass. pen., Sez. VI, 30.6.1990, in CASS. PEN., 1991, I, 2041.
(63) – Comma così sostituito dall’art 1 legge 24 luglio 1993, n. 256.
(64) – Cass. pen., Sez. I, 14.1.1991, in CASS. PEN., 1992, 1596.
(65) – Cass. pen., Sez. I, 23.11.1987, in GIUST. PEN., 1988, III, 447.
(66) – Cass. pen., Sez. I, 21.4.1986, in CASS. PEN., 1987, 1456.
(67) – GUERRINI – MAZZA, op. cit., pag. 106.
(68) – Cass. pen., Sez. I, 27.10.1989, in CASS. PEN., 1990, 675.