Il Mattino, Mercoledì 26 Ottobre 2016
Boss pentiti? Il magistrato a Napoli non ci crede e chiede 14 ergastoli
di Viviana Lanza
Un «l’ho fatto e mi dispiace» confessato in aula può bastare a evitare l’ergastolo, ottenere le attenuanti generiche e sperare in un alleggerimento del regime detentivo? Per il pm Stefania Castaldi la risposta è un secco no. E lo spiega nella requisitoria al processo per l’omicidio Montanino-Salierno, agguato che il 28 ottobre 2004 in via Vicinale Cupa dell’Arco, a due passi dal bunker del boss Di Lauro, innescò la miccia della guerra che spaccò in due il mondo del narcotraffico tra Secondigliano, Scampia e tutta l’area nord: da una parte i Di Lauro e dall’altra gli Amato-Pagano. Fu una guerra feroce. Da quegli anni il pm Castaldi indaga sui clan della faida. Strateghi e killer attenti a ogni dettaglio tanto da indurre il magistrato ad affermare che «se non fosse stato per i collaboratori di giustizia non avremmo ricostruito tutti i delitti».
In questo processo i pentiti che sostengono l’accusa sono 15, tanti quanti gli imputati, tra mandanti, esecutori e affiliati che a vario titolo parteciparono all’organizzazione dell’agguato. Il pm chiede la condanna per tutti: ergastolo per 14, e solo per l’armiere 12 anni di reclusione. Il processo, alla quarta Assise (presidente Provitera), dura da quasi due anni ma solo da alcuni mesi, uno dopo l’altro, sei degli imputati hanno deciso di confessare in aula. «Lo hanno fatto dopo anni e tante possibilità di farlo prima – fa notare il pm nel suo atto d’accusa – quando erano ormai coperti da una serie di elementi probatori». «La loro intenzione – aggiunge – non è solo avere un fine pena ma sperare in una attenuazione del regime carcerario».
Perché con il riconoscimento delle attenuanti la difesa potrebbe ridiscutere il rinnovo del 41 bis e i boss potrebbero liberarsi del fardello del carcere duro tornando ad avere colloqui e contatti con il mondo esterno. «E il lavoro di undici anni dello Stato sarebbe così vanificato» chiosa il pm che in aula ricostruisce la genesi della scissione e il momento in cui, con l’omicidio di Fulvio Montanino e di suo zio Claudio Salierno, si decise di dichiararla apertamente; illustra i ruoli di capi e gregari; descrive la tecnica del clan di utilizzare i figli dei killer come ostaggi a garanzia del buon esito delle loro azioni, cosa che accadde anche per quel primo delitto. Uno degli imputati dal gabbiotto la interrompe: «Fai i nomi» urla. Il pm non si scompone e snocciola un elenco di nomi e fatti. Per anni ha indagato su affari e storia del clan, di recente anche sui due Van Gogh trovati in casa di un mediatore in affari proprio con gli Amato-Pagano.
E il caso di Cesare Pagano è tra quelli su cui il pm si sofferma più a lungo: il boss, capo del gruppo scissionista, in un processo in Assise Appello in cui rispondeva di due omicidi, a febbraio scorso, decise di confessare dissociandosi dalla camorra e ammettendo di aver ordinato quei delitti. La conseguenza fu uno sconto di pena a 30 anni con le attenuanti generiche. «Ma quale dissociazione? – tuona il pm durante la requisitoria – Come si fa a dissociarsi con un clan fuori, i patrimoni e le attività? Sarebbe stato diverso se Pagano ci avesse detto dove sono i soldi». Per il pm, dunque, le ammissioni in aula di Pagano come quella del nipote Carmine, di Gennaro Marino («che nel 2015 smentisce uno dei pentiti che lo accusano e nel 2016 ammette le proprie responsabilità» sottolinea l’accusa), di Ciro Mauriello («che confessa perché ha un magone da dodici anni»), di Arcangelo Abete (che si limita ad ammettere l’addebito) e Vincenzo Notturno (che chiede scusa alle famiglie delle vittime) non sarebbero dettate da una reale presa di coscienza. «Sono utilitaristiche» dice il pm. E conclude: «La camorra è a vincolo definitivo, l’unico modo per uscirne, se non da morti, è collaborare con la giustizia. Non ci sono altre vie».