L’Espresso, venerdì 12 aprile 2019
«La maxi-tangente siciliana non deve restare impunita»
Una sentenza del tribunale di Palermo riapre gli scandali finanziari dell’era Cuffaro: le vecchie accuse sono ormai prescritte, ma Procura, Corte dei Conti e antimafia devono aprire tre nuove istruttorie
DI LIRIO ABBATE E PAOLO BIONDANI
L’indebitatissima Regione Sicilia ci ha rimesso più di cento milioni di euro. Ma i consulenti e tesorieri dell’ex governatore Salvatore Cuffaro hanno intascato almeno 16 milioni. In nero. Su conti esteri non dichiarati al fisco. Con pacchi di soldi riportati dalla Svizzera a Palermo, di nascosto, e distribuiti in contanti: un traffico di valigie di denaro continuato per almeno cinque anni. Fino alla condanna di Cuffaro per favoreggiamento della mafia.
L’Espresso nel numero in edicola da domenica 14 aprile e già online su Espresso+ , svela i protagonisti, le cifre e i retroscena di uno scandalo politico-finanziario che un magistrato di Palermo ha definito «la più grande tangente della storia siciliana». Un caso giudiziario che sembrava insabbiato dalla prescrizione, ma ora viene riaperto dalle motivazioni di una sentenza a sorpresa, depositata nei giorni scorsi dai giudici del tribunale, finora inedita.
A pagare i danni dello scandalo sono tutti i cittadini della Sicilia, la regione che secondo l’Istat è al secondo posto in Italia (dopo la Calabria) per numero di famiglie indigenti, tra quartieri degradati, discariche esaurite e ospedali al collasso. Le carte processuali mostrano che proprio la Sicilia è riuscita a regalare non meno di 104 milioni di euro a un colosso della finanza mondiale, la banca giapponese Nomura. Che per aggiudicarsi quel maxi-affare ha distribuito oltre 16 milioni, segretamente, ai consulenti e tesorieri dell’allora governatore Cuffaro, democristiano, in carica dal 2001 al 2008 con il centrodestra berlusconiano.
L’operazione che, come conferma il verdetto del tribunale di Palermo, ha provocato le maxi-perdite per le casse regionali, innescando i pagamenti in nero all’estero, riguarda complicati strumenti finanziari, utilizzati per rinviare di trent’anni l’esplosione dei debiti della sanità siciliana, accumulati nell’era di Cuffaro e scaricati così sulle generazioni future, aggravandone l’entità. In gergo, si chiamano derivati: sono proprio quei contratti ad altissimo rischio e bassissima trasparenza che da più di un decennio, da quando è esplosa la crisi economica mondiale, vengono additati come simbolo della finanza tossica, dei peggiori eccessi del capitalismo moderno. Che la giustizia finora non è mai riuscita a colpire.
L’inchiesta giudiziaria sui derivati della sanità siciliana, nata nel 2006 dalle rivelazioni di un pentito di mafia, ha avuto un cammino lungo e tormentato, con trasferimenti per competenza da Roma a Milano fino a Palermo, segnato anche da scontri personali tra magistrati (per altre vicende). L’imputato principale, Marcello Massinelli, scelto da Cuffaro come consulente «per l’economia, le banche e i finanziamenti della Regione» (nonché tesoriere elettorale e consigliere di amministrazione del Banco di Sicilia), è stato processato solo nel 2018, insieme a un suo socio e collaboratore. Nella sentenza emessa il 20 febbraio scorso, al tribunale di Palermo non è rimasto che dichiarare la prescrizione di tutte le accuse.
Ma ora le motivazioni del verdetto, firmate dal giudice Lorenzo Matassa, riaprono il caso. La sentenza infatti spiega che i consulenti di Cuffaro hanno potuto evitare la condanna solo per scadenza dei termini legali di durata del processo, ma i reati rimangono «provati al di là di ogni ragionevole dubbio». E uno scandalo così grave non può restare impunito. Quindi il tribunale ordina tre nuove istruttorie. La Procura di Palermo dovrà aprire una nuova indagine per «associazione per delinquere» e altri reati non ancora prescritti. La Corte dei Conti siciliana dovrà attivarsi per «recuperare l’immenso danno erariale», «quantomeno simile al risarcimento multi-milionario che la Regione Calabria ha ottenuto dalla stessa banca Nomura». Mentre il tribunale delle misure di prevenzione viene invitato a dichiarare Massinelli e il suo collaboratore «evasori abituali» e confiscare tutti i loro beni.