Il Mattino, Lunedì 6 maggio 2019
È UNA GUERRA, NON BASTA SCHIERARE PIÙ AGENTI
Isaia Sales
Napoli è, inoltre, la città dove il numero di bambini coinvolti in azioni sanguinarie ( o perché in compagnia di loro familiari colpiti in agguati o totalmente estranei) non ha confronto con nessuna realtà italiana ed europea. Un numeromaggiore di bambini vittime di azioni criminali è riscontrabile solo a seguito di atti di terrorismo dimatrice religiosa. Nelle grandi città un bambino può correre rischi in casa perché non adeguatamente sorvegliato, o a causa di incidenti stradali,ma quando il principale pericolo è quello di pallottole vaganti allora non può che essere messo radicalmente in discussione il concetto di sicurezza urbana. Questi quattro aspetti della questione criminale a Napoli sono strettamente collegati e sono assolutamente incontrovertibili e incontestabili. Ma ce n’è un quinto altrettanto incontrovertibile e incontestabile: nella metropoli partenopea il problema della sicurezza non riguarda gli extracomunitari, non riguarda gli stranieri, ma ha a che fare quasi esclusivamente con criminali indigeni, autoctoni, locali. E dunque Napoli in questo momento si presenta come la più eclatante messa in discussione dello schema sull’ordine pubblico in auge al Ministero degli interni: la centralità degli stranieri come causa dell’insicurezza pubblica è un’ipotesi strategica assolutamente sballata. Napoli la smentisce clamorosamente, sanguinosamente e quotidianamente. Siamo di fronte a un tipo di criminalità locale (che per comodità chiamiamo camorra) che non tiene in nessun conto (nel decidere azioni delittuose) delle condizioni esterne, cioè la presenza eventuale in zona di forze dell’ordine, o l’affollamento di persone estranee sul luogo dell’agguato, o l’esistenza di telecamere. Insomma,molte bande di camorra non usano da tempo la tecnica tradizionale dell’appostamento (centrare il bersaglio in luoghi appartati lontano da testimoni) ma applicano una tecnica da guerriglia urbana (tutti i luoghi e le ore sono utili per colpire), una tecnica che si basa su di un presupposto preciso: non lasciare all’avversario il vantaggio di sentirsi al sicuro perché protetto da numerose persone innocenti attorno. Stiamo, cioè, sperimentando a Napoli un altro modello di attacco criminale, quello basato sull’assunto che in una guerra con gli avversari non bisogna minimamente preoccuparsi di chi si trova sulla scena dell’assalto, con una totale indifferenza per eventuali vittime innocenti ed estranee. In questa guerra è importante colpire l’avversario prima e oltre ogni altra considerazione e valutazione: l’obiettivo «militare» è più importante di qualsiasi vittima civile. A Napoli, quindi, si sta applicando la logica della guerra e non della faida, la tecnica dei gangsters e non dei mafiosi, la modalità militare e non semplicemente quella criminale. Ed è proprio per questi motivi che il concetto di sicurezza basato sull’assunto del controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine (ammesso che 136 poliziotti in più arrivati nelle settimane scorse siano in grado di garantirlo) va rivisto radicalmente nella città partenopea. Nell’idea del controllo del territorio c’è il convincimento che la presenza delle forze dell’ordine sia di per sé dissuasiva rispetto ad eclatanti azioni criminali. Così non è, purtroppo. E chi ha il compito di studiare le strategie più adatte a contrastare le azioni criminali ne deve tenere conto. La stessa configurazione urbana di Napoli sembra favorire l’ aggiramento di un certo tipo di controllo del territorio: dedali infiniti si riversano sulle arterie principali, permettendo il passaggio da un luogo all’altro senza necessariamente passare dalle strade principali più controllate. A ciò si aggiunge l’infinita possibilità di utilizzare manodopera criminale sempre pronta a sostituire quelli che cadono o sono beccati dalle forze dell’ordine. Nel corso della storia, si sa, le strategie militari sono state condizionate dalla maggiore o minore disponibilità di soldati comuni da buttare sul fronte, che venivano appunto classificati come «carne da cannone». Ciò è ancora più vero per le strategie criminali. Nel mentre aspettiamo ansiosi notizie rassicuranti su Noemi da quel fronte di guerra che sono diventati gli ospedali pediatrici della città (quanti bambini ci finiscono colpiti da proiettili vaganti o vittime dei più assurdi maltrattamenti;ma questo è un altro discorso) facciamo nostre le considerazioni svolte da Federico Cafiero De Raho in una importante intervista rilasciata ieri al Mattino: di una nuova strategia di contrasto abbiamo bisogno, al più presto e senza aver paura di abbandonare schemi del passato. E per tutti questi motivi (e per la serietà della partita in gioco) forse è il caso di chiedere maggiore sobrietà a tutti quelli che fanno dichiarazioni come sport quotidiano. Il ministro Salvini da un palco (o da un balcone) ha gridato: «i camorristi si ammazzino tra di loro e non rompano le palle alle persone che non c’entrano». Non sono in grado di sapere se i camorristi accoglieranno l’invito del ministro di spararsi tra di loro. Quello che so è che i camorristi non si sono mai ammazzati tra di loro almeno da 50 anni; quasi sempre negli scontri armati hanno coinvolto persone innocenti: con una criminalità a spiccata caratteristica urbana e di massa, in una città dalla particolare struttura come quella napoletana, è quasi impossibile che i malviventi possano fare i conti tra di loro senza coinvolgere gli altri. Qualcuno lo spieghi al ministro. E che dire delle dichiarazioni di Di Maio: “Una cosa è certa: serve più sicurezza, servono più uomini sul terreno. Più controllo, più prevenzione”? Che paese è diventato l’Italia se un vice presidente del consiglio parla come un uomo della strada. Il populismo impotente è anche questo.