Adrian Humphreys
Lee Lamothe
The Sixth Family
Vito Rizzuto e il collasso della mafia americana
Collana Electi
Roma, Armando Curcio Editore, ottobre 2009
pp. 672, cm 14×21,5, € 15,90
ISBN 978-88-95049-67-0
«Una lettura essenziale per chi è preoccupato
dall’intrusione della criminalità organizzata
in ogni singolo aspetto della nostra società.»
In libreria dal 28 ottobre 2009
Il libro
“Il ponte di Messina era solo uno degli investimenti in cui Vito Rizzuto era coinvolto.”
A parlare è Silvia Franzè, della DIA. E le sue non sono le uniche rivelazioni grazie alle quali The Sixth Family, già best seller negli Stati Uniti, può essere considerato una fonte irrinunciabile nella conoscenza dei rapporti tra mafia italiana e americana. Tra episodi noti e retroscena ancora inediti gli autori ricostruiscono tutte le tappe che hanno consacrato la famiglia Rizzuto da Cattolica Eraclea, Agrigento, ai vertici della malavita mondiale, seguendo la lunga scia di droga e sangue che ha portato il suo attuale leader, Vito, a diventare uno dei criminali più temuti e controversi dell’ultimo secolo.
Dopo decenni di onorata carriera tra partite milionarie di eroina, conti cifrati ed esecuzioni spietate Rizzuto ha rivolto la sua attenzione a “casa”, legando il suo nome agli appalti illeciti per il ponte sullo Stretto di Messina, ma una condanna del 2007 lo ha messo fuori gioco. Cosa accadrà nel 2012, quando il John Gotti del Canada uscirà di prigione?
Con testimonianze e immagini esclusive dagli archivi FBI.
Gli autori
Adrian Humphreys, giornalista, lavora attualmente per il «National Post»; in passato ha collaborato con «Chicago Sun-Times», «Daily Telegraph» e «Reader’s Digest». È autore di The Enforcer, biografia di Johnny “Pops” Papalia, uno dei più longevi boss mafiosi del Nord America, e ha curato la produzione di popolari serie televisive sul crimine organizzato.
Lee Lamothe ha firmato numerosi reportage e best seller sulla malavita. Tra i suoi titoli Bloodlines. The Rise and Fall of the Mafia’s Royal Family, Global Mafia. The New World Order of Organized Crime e il romanzo The Last Thief, sulla mafia russa.
«Un tour dai risvolti machiavellici nel mondo della malavita. Una lettura essenziale […] per chi è preoccupato dall’intrusione della criminalità organizzata in ogni singolo aspetto della nostra società.»
The Globe and Mail
«Con l’occhio per i dettagli tipico del giornalista e il dono del romanziere per la narrazione, i due autori mettono a nudo le attività centrali della famiglia Rizzuto e le loro connessioni internazionali.»
The Record
Lettura
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In Italia, in particolare al sud, gli appalti statali offrono una costante fonte di reddito per la mafia. Nel corso di grossi progetti di costruzione è un partner invisibile ma onnipresente. Lo sciacallaggio comincia ancor prima del concepimento dell’idea progettuale, attraverso l’accumulo di terre, poi si sviluppa velocemente attraverso i settori del lavoro e della costruzione, la sicurezza dei cantieri, la fornitura di manodopera organizzata e di […] macchinari, i pagamenti per l’ottenimento dei permessi e infine una parte della gestione del progetto finito, e magari una quota dei profitti da esso derivanti. I politici e i mafiosi da molto tempo si spartiscono i dividendi tra loro.
In Calabria e in Sicilia i gruppi del crimine organizzato sono così pervasivi nelle attività di costruzione e di sviluppo che molte società al nord – culla della finanza italiana – cercano di evitare di sviluppare dei progetti in queste regioni. Le aziende che li intraprendono devono stanziare grosse somme di denaro tra estorsioni e tangenti; tradizionalmente, quelli che hanno mancato di sottostare al volere della mafia siciliana e della ’ndrangheta calabrese sono stati afflitti da un’inesauribile “sfortuna”: dirigenti rapiti, camion e macchinari danneggiati, distrutti o rubati, permessi e licenze rinviati, problemi con la manodopera rimasti irrisolti…
Tra i due feudi della mala, quello siciliano e quello calabrese, c’è lo Stretto di Messina, un lembo d’acqua largo circa tre chilometri e duecento metri. […] L’idea di un ponte che colleghi la Sicilia e la terraferma è caldeggiata e discussa da oltre un secolo, ma è solo negli ultimi 25 anni che ha preso seriamente corpo diventando oggetto di studio. I sostenitori credono che questo progetto aprirà le porte allo sviluppo della Sicilia, relativamente povera. Gli oppositori adducono, a sostegno della loro tesi contraria, la storia della regione, condizionata dall’attività dei vulcani, il presunto danno ambientale e la critica presenza di forti venti, e poi c’è la costa, stimata circa sei miliardi di dollari.
Messa da parte la vecchia leggenda del mostro marino che abiterebbe lo stretto, tutte le parti coinvolte nel dibattito in merito al ponte erano pienamente consapevoli della presenza di un’altra bestia pronta a deliziarsi con l’enorme appalto pubblico per la costruzione di un’opera pubblica di dimensioni tanto considerevoli: la mafia.
Con la mafia siciliana a un capo del presunto ponte e la ’ndrangheta calabrese all’altro capo era impossibile pensare che il crimine organizzato non avrebbe avanzato pretese su quello che prometteva di essere il più grande progetto di lavori pubblici nella storia del Sud Italia. E così, quando il governo annunciò nel 2002 che l’ambizioso ponte a sospensione a otto corsie si sarebbe infine realizzato venne istituita una speciale commissione per rivelare qualsiasi coinvolgimento della mafia nel progetto.
L’11 febbraio 2005 venne fuori una notizia che non colse di sorpresa nessuno: le autorità dissero di aver scoperto un piano ideato dal crimine organizzato volto al controllo del consorzio selezionato per costruire e gestire il ponte. A una conferenza stampa a Roma i vertici della Direzione Investigativa Antimafia, l’organo investigativo nazionale specializzato nella lotta alla criminalità organizzata, annunciò il fermo di un facoltoso ingegnere edile ed emise dei mandati d’arresto contro altri quattro uomini accusati di aver tentato di infiltrarsi nella gara d’appalto.
La DIA rivelò poi un particolare che riuscì a destare sorpresa: a capo del consorzio criminale, annunciarono gli ufficiali, c’era Vito Rizzuto.
A essere arrestato presso la sua abitazione romana ore prima di quell’annuncio fu Giuseppe “Joseph” Zappia, nato nel 1925 a Marsiglia da genitori di origini calabresi e quindi trasferitosi in Canada, meglio noto come il controverso imprenditore responsabile della costruzione del villaggio olimpico di Montréal per le Olimpiadi del 1976. Il progetto finì con l’impantanarsi in uno scandalo: nel 1988 Zappia venne prosciolto dall’accusa di frode legata al progetto solo dopo la morte di due testimoni chiave, e da allora prese a fare la spola tra il Canada e il Medio Oriente (dove era coinvolto in diversi progetti di sviluppo) prima di trasferirsi a Roma nel 1997. Nel 2001 si vantò di essere diventato amico di Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio.
Alla conferenza stampa che annunciò l’arresto di Zappia e i mandati d’arresto contro Vito e tre soci d’affari un portavoce della polizia disse che Zappia aveva messo in piedi un’impresa edilizia, la Zappia International, che veniva usata a copertura della proposta di Vito nella costruzione del ponte.
“Vito Rizzuto ha provato a partecipare alla gara d’appalto istituita per costruire il ponte di Messina tra la Sicilia e la Calabria. Ovviamente Rizzuto in persona non può venire qui in Italia e dire: ‘Okay, vorrei edificare il ponte di Messina’” disse Silvia Franzè, un commissario capo della DIA. “In Italia tutti sanno della famiglia Rizzuto, e quindi, in conformità con la nostra legislazione, una famiglia mafiosa non può partecipare a un appalto pubblico per ottenere un contratto statale per le opere pubbliche. Anche se in Italia non è accusato tutti sanno che è collegato ai Caruana-Cuntrera e via dicendo. Qui sappiamo chi è Vito Rizzuto.”
Per essere sostenuto nel tentativo di trarre profitto dal progetto del ponte, Vito si rivolse quindi al suo vecchio amico Zappia, dice la polizia.
“Zappia era il presidente di una società che chiese di partecipare all’appalto e tenne numerosi incontri per ottenerlo, si trattava di un’enorme opera pubblica. Lui era il volto pulito della famiglia Rizzuto” disse la Franzè.
Un rapporto confidenziale della polizia canadese sull’indagine dice che Vito e Zappia si conoscono dagli anni ’70 e che Zappia era ben consapevole dell’interesse della polizia nei confronti di Vito. Questo fu il motivo per cui tentò di limitare i contatti diretti tra loro, preferendo invece gestire gli affari tramite intermediari.
“Vito Rizzuto e Zappia parlarono direttamente solo due volte” proseguì la Franzè.
Una di quelle chiacchierate ebbe luogo il 1 novembre 2002.
“Tutto procede senza intoppi. Tutti i piani sono stati accettati” disse Zappia, stando a una trascrizione della conversazione.
“Allora abbiamo buone chance, no?” rispose Vito.
“Non solo delle buone chance, direi piuttosto una garanzia.”
“Bene, bene” concluse Vito.
La gran parte degli intrallazzi documentati dalla polizia, comunque, avvenne tramite mediatori che cercavano di fare gli interessi di Vito, dicono i documenti del tribunale italiano.
Filippo Ranieri, nato a Montréal nel 1937, era un consulente commerciale indicato dagli agenti come broker. La polizia canadese lo descrive come un associato di Vito di vecchia data, mentre la polizia italiana sostiene che fosse l’intermediario principale tra Vito e Zappia.
Hakim Hammoudi, nato in Algeria nel 1963, che si divideva tra Parigi e Montréal, era un altro consulente commerciale il cui nome appare su una lista riservata della polizia nella quale sono elencati gli associati di Vito.
Sia Ranieri che Hammoudi ebbero a che fare con Zappia per telefono, via fax e di persona. Un rapporto di polizia asserisce che entrambi lo incontrarono a Roma diverse volte nell’ambito della questione dell’appalto del ponte. Altrettanto implicato, annunciarono le autorità, era Sivalingam Sivabavanandan, nato nel 1953, uomo d’affari dello Sri Lanka residente a Londra, in Inghilterra, e conosciuto con il soprannome di Bavan. Sia Sivabavanandan sia Hammoudi vennero accusati di aver aiutato Vito a investire le sue enormi ricchezze.
“Erano due uomini d’affari quelli che tenevano i contatti con le banche per trovare altri che volevano investire i loro soldi. Seguivano tutto ciò che aveva a che fare con gli interessi economici di Vito. Erano broker che lavoravano per lui. Il ponte di Messina era solo uno degli investimenti in cui Vito Rizzuto era coinvolto” disse la Franzè.
Hammoudi e Zappia lavoravano a imprese in Algeria, Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti che promettevano di dare a Vito un ingente profitto che doveva, a sua volta, essere reinvestito in una grande speculazione petrolifera con base a Londra, stando a quanto riferito dalle autorità. Il governo italiano sta lavorando per rintracciare parte di quel denaro e gli investigatori hanno chiesto agli svizzeri di esaminare nuovamente le transazioni bancarie effettuate dalla famiglia.
Il procuratore Adriano Iasillo a Roma sentenziò che il gruppo aveva più di sei miliardi pronti a essere investiti nel progetto. L’indagine prese il via nell’ottobre del 2002 e gli investigatori dissero che il consorzio illecito aveva presentato un’offerta preliminare, che riguardava le qualifiche tecniche, due anni prima. Aveva già investito più di quattro milioni e trecentomila dollari a quel proposito, stimarono le autorità. Al tempo dell’annuncio dell’arresto la polizia emise mandati in diverse città europee e raccolse una montagna di documenti. La colonna portante della prova del governo sono le centinaia di conversazioni registrate, alcune fatte in Canada e altre in Italia, inclusa una in cui un cospiratore dice che, se tutto va bene, saranno in grado di costruire un ponte per conto di un amico – che gli investigatori sostengono trattarsi di Vito – e poi gestire la contabilità necessaria a soddisfare sia “la mafia sia la ’ndrangheta”.
I mandati d’arresto vennero spiccati in Italia nei confronti di Vito, Ranieri, Hammoudi e Sivabavanandan. Poco più tardi quest’ultimo venne arrestato in Francia ed estradato in Italia. Venne condannato a due anni di prigione dopo essersi dichiarato colpevole di associazione a delinquere di stampo mafioso; poi, però, fu baciato dalla fortuna. All’incirca al giro di boa della sua condanna il governo italiano, intento a combattere il sovraffollamento delle prigioni, decretò che tutti i detenuti ai quali rimanevano da scontare meno di tre anni dovevano essere rilasciati. Quando fu di nuovo libero tornò in Inghilterra. L’Italia chiese l’estradizione di Ranieri dal Canada, istanza che il governo canadese fino a oggi si è rifiutato di accettare (forse perché lui è accusato solo di associazione mafiosa, che in Canada non è considerata un crimine, hanno detto le autorità italiane).
Probabilmente anche Hammoudi non è disponibile per il processo. Né il governo italiano né quello canadese sanno precisamente dove si trovi […].
(dal Capitolo 41)