‘Ndrangheta e rituali: «La sola affiliazione non basta per accusare di associazione mafiosa»
È la decisione della Corte di Cassazione a sezioni unite che fa chiarezza sulla controversa questione: «È grave indizio, ma serve patto reciprocamente vincolante»
di Consolato Minniti 29 maggio 2021
La mera affiliazione ad un’associazione di stampo mafioso, in particolare alla ‘Ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa non costituisce fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità di partecipazione al sodalizio mafioso previsto dall’articolo 416 bis del codice penale.
È questa la decisione della Corte di Cassazione a sezioni unite, quindi l’organo più autorevole in tema di massime giurisprudenziali, in tema di ‘Ndrangheta. Una decisione per certi versi storica, poiché permette di fare finalmente chiarezza su un contrasto giurisprudenziale che, per troppo tempo, aveva visto visioni contrapposte suffragate da pronunce contrastanti.
La vicenda alla base della decisione
La vicenda trae spunto dall’inchiesta “Eyphemos” che, nei mesi scorsi, aveva condotto agli arresti – fra gli altri – di importanti personaggi politici di caratura regionale. Nel corso del processo, gli avvocati Pier Paolo Emanuele e Luca Cianferoni, difensori dei fratelli Francesco e Domenico Modaffari, imputati nel processo che si celebra dinanzi al Tribunale di Palmi, avevano presentato ricorso per Cassazione con riferimento alla sufficienza o meno della mera affiliazione rituale ad una mafia cosiddetta “storica”, così da essere ritenuti associati e quindi avendo raggiunto una sufficiente soglia di colpevolezza. I due Modaffari, infatti, venivano indicati come affiliati alla ‘Ndrangheta da terzi soggetti, senza però risultare coinvolti in azioni effettive o essere direttamente intercettati. Una situazione che ha portato i due legali a rivolgersi alla Cassazione per vedere riconosciuta l’insussistenza dell’esigenza cautelare.
La decisione della Cassazione
Una volta giunto in Cassazione, la sezione che se ne doveva occupare ha saggiamente deciso – ravvisato il contrasto giurisprudenziale sul tema – di rimettere la questione alle sezioni unite.
I giudici hanno così stabilito: «La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione».
Il rituale di affiliazione
In estrema sintesi, dunque, la mera affiliazione è certamente un indizio grave. Ma non può – esso, da solo – costituire la base sulla quale costruire un giudizio di responsabilità penale. Alla luce di ciò, il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria dovrà ora pronunciarsi nuovamente, posto che i giudici hanno annullato con rinvio l’ordinanza del TdL di Reggio Calabria. Si attendono le motivazioni per comprendere ancor meglio la decisione. Di sicuro c’è, però, che questa pronuncia – molto attesa negli ambienti giudiziari – potrà cambiare molte posizioni processuali in diversi procedimenti che scontavano proprio la mancanza di condotte ulteriori rispetto alla mera affiliazione rituale.