Il Fatto Quotidiano
“Mio padre un faro”, ma è condannato per camorra. L’autogol del forzista D’Apice
Il consigliere più votato nel centrodestra appena eletto presidente ha commemorato in aula il papà Luigi d’Apice, detto “Giggino ‘o ministro”, deceduto l’anno prima, condannato nel 2004 con sentenza definitiva a 4 anni per concorso esterno in associazione camorristica. In Comune arriva la commissione d’accesso
di Vincenzo Iurillo | 3 GIUGNO 2021
Un trafiletto del Fatto quotidiano. Poche righe sono state la palla di neve che rotolando è diventata la valanga dell’invio della commissione prefettizia d’accesso a Castellammare di Stabia. Un pezzetto pubblicato il 18 maggio, di circa 700 battute, dal titolo: “Eletto figlio del boss, lui ringrazia il padre”. Riferiva una notizia: l’elezione a presidente del consiglio comunale stabiese di Emanuele D’Apice, il consigliere più votato nel centrodestra che sostiene il sindaco di Forza Italia Gaetano Cimmino. Con uno sforzo di sintesi, abbiamo raccontato che D’Apice, appena eletto presidente, ha commemorato in aula il padre Luigi d’Apice, detto Giggino ‘o ministro, deceduto l’anno prima, condannato nel 2004 con sentenza definitiva a 4 anni per concorso esterno in associazione camorristica. Era chiamato ‘o ministro’ perché fu uno dei punti di raccordo tra il clan Cesarano e la politica di Pompei, per gli inquirenti era capace di spostare grossi quantitativi di voti, e fu citato nella relazione dello scioglimento dell’amministrazione comunale per infiltrazioni mafiose. “Ringrazio mio padre, il mio faro, mi ha trasmesso l’amore per la politica, mi ha reso l’uomo che sono oggi”, le parole, commosse, del figlio. Pronunciate tra gli applausi della maggioranza di Forza Italia e dintorni, e i silenzi stupefatti dell’opposizione di centrosinistra. In un’aula consiliare intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Per quanto breve, quel trafiletto – l’unico che quella mattina in edicola ricordava i trascorsi del genitore – è finito nelle rassegne stampa delle istituzioni ed ha suscitato un putiferio di reazioni politiche. Iniziate con il post mattutino del presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra: “I figli non devono scontare gli errori dei padri. Tuttavia la dissociazione rispetto a comportamenti sanzionati dalla comunità come criminali rimane doverosa”. E proseguite con il comunicato del senatore Sandro Ruotolo, uno che vive sotto scorta perché il clan dei Casalesi gliel’ha giurata: “È inaccettabile quello che è successo, è un insulto alle istituzioni”. Il numero 1 di Renzi in Campania, Ciro Buonajuto, ha definito quelle parole “estremamente gravi e preoccupanti, sono altri, gli uomini e donne dello Stato, delle istituzioni e della Chiesa, ad essere ‘fari’ della nostra attività politica, non un uomo condannato come camorrista”. Il Pd di Napoli, presieduto dall’ex magistrato anticamorra Paolo Mancuso, ne ha chiesto le dimissioni. Il M5s, attraverso le sue parlamentari locali Teresa Manzo e Carmen Di Lauro, ha sottolineato “la grave inopportunità di quelle dichiarazioni”.
Detto questo, era dai tempi di Comunardo Niccolai che non si assisteva ad un autogol così imbarazzante. Non solo per le parole di D’Apice in sé. Ma per il contesto, e il momento storico, in cui sono state dette. In una città, Castellammare di Stabia, 60mila abitanti, attraversata da mesi da voci e richieste di commissione d’accesso. E precisamente da fine marzo, quando è stata eseguita un’ordinanza di 16 arresti contro i reggenti del clan D’Alessandro che aveva documentato il sostegno della storica cosca stabiese – 50 anni di potere ininterrotto – a un candidato al consiglio comunale di Forza Italia alle ultime amministrative. Così si sono lette le intercettazioni ambientali in cui uno dei boss, Sergio Mosca, un colletto bianco che compare in centinaia di pagine dell’inchiesta sull’omicidio del 2009 del consigliere comunale Pd Gino Tommasino, e che secondo un pentito ne sarebbe stato il mandante, chiede qualche bigliettino elettorale per un candidato di Forza Italia. Non molti, per “non dare nell’occhio, un appoggio familiare”. Nel corso della conversazione si fa il nome del parlamentare locale azzurro Antonio Pentangelo (non indagato in questa vicenda) con una confidenza che fa ritenere una conoscenza pregressa.
Sono più di due anni che la Dda di Napoli e la procura di Torre Annunziata hanno acceso un faro sulle commistioni tra clan e politica stabiese. Il loro lavoro si è incentrato sulla figura di Adolfo Greco, ricchissimo imprenditore dai mille interessi, con una condanna per favoreggiamento personale a Raffaele Cutolo e con il fascino dell’uomo che ha attraversato indenne le stagioni della ‘vecchia’ camorra, e che in tempi moderni avrebbe dialogato e fatto affari con quella ‘nuova’ del clan dei Casalesi e del clan D’Alessandro.
Arrestato tre volte tra il dicembre 2018 e il maggio 2020, Greco è ritenuto il sole di una galassia di favori e corruttele nel quale si ritiene normale dover ‘pagare’ per ottenere il risultato desiderato: il pizzo se si vuole stare in pace, la tangente per farsi approvare la licenza o per ottenere un piacere dal politico di turno. Tra i quali i parlamentari di Forza Italia Antonio Pentangelo e Luigi Cesaro: i due, accusati di corruzione in concorso con Greco in relazione al progetto di un mega complesso residenziale nell’ex area industriale Cirio (mai realizzato), hanno rischiato l’arresto, scongiurato prima dalle guarentigie parlamentari e poi da un provvedimento favorevole del Riesame.
Anni di buona stampa locale, su di lui e sul figlio consigliere comunale fino al 2013, e una rete di pubbliche relazioni di altissimo livello, avevano reso Greco una figura di riferimento del tessuto socio-produttivo stabiese e napoletano. Da lui si recavano alti ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, politici, amministratori delegati, sindaci e assessori, figure di spicco del mondo delle associazioni e delle imprese, per chiedere informazioni o consigli, o semplicemente per scambiarsi saluti e pacche sulle spalle. Frequentazioni avvenute alla luce del sole, prive di qualsiasi rilievo penale, nella totale buona fede degli interlocutori, professionisti stimati e incensurati. Ma che rilette alla luce delle carte giudiziarie hanno contribuito ad inquinare ulteriormente un ambiente già malsano.
A Castellammare si è così formata una sorta di ‘cultura’ per la quale è normale che il sindaco Cimmino, per salvaguardare i suoi equilibri politici, prima estrometta dalla giunta il maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto, l’investigatore di punta del caso Consip, chiamato in squadra per imprimere una svolta nelle politiche di legalità e liquidato con frasi di circostanza, e poi sostituisca alla guida del consiglio un sottufficiale della Finanza, Vincenzo Ungaro, con il figlio di un pregiudicato di camorra. Un uomo di 35 anni che ringrazia il padre per i valori che gli ha insegnato. E che all’inizio, con l’esplosione del caso, non è arretrato di un millimetro. “Sono grato a mio padre per gli insegnamenti che mi ha dato nel segno del riscatto: non cedere mai all’illegalità, andare sempre a testa alta – ha detto D’Apice – sono fiero di ciò che questa amministrazione sta mettendo in campo. Non temiamo alcunché, i nostri sforzi in materia di trasparenza, cultura e lotta ad ogni tipo di malaffare sono sotto gli occhi di tutti. Chi strumentalizza queste posizioni mi fa solo schifo. Sono questi i mezzi che usano per fare politica? Siamo veramente stufi, basta”. Nelle ultime ore D’Apice ha corretto il tiro, consapevole forse che l’arrivo della commissione d’accesso è colpa sua. “Mi dispiace di essermi espresso male, di non essere riuscito a farmi capire. La camorra è un cancro che mi ha rovinato l’infanzia, io rappresento un desiderio di riscossa di chi ha vissuto sulla propria pelle il male della camorra e lo ha sconfitto con tutta la propria famiglia”.
La commissione d’accesso stabilirà se la camorra ha condizionato l’operato dell’amministrazione comunale di Castellammare di Stabia. Ma per scalfirne la cultura dominante ci vorrebbe ben altro.