Donne contro la ’Ndrangheta, una battaglia culturale che non si può perdere
FRANCESCA CHIRICO
31 agosto 2021 • 06:30
Aggiornato, 31 agosto 2021 • 12:17
A circa dieci anni di distanza da una stagione che registrò in Calabria un inedito susseguirsi di collaboratrici e testimoni di giustizia, è forse arrivato il tempo di una riflessione sul lascito di quelle scelte. Anche per rispetto di quante le hanno pagate con la morte…
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni, a cura dell’associazione Cosa vostra. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Trame, festival dei libri sulle mafie di Lamezia Terme, con 15 articoli sui temi al centro degli incontri del Festival.
Hanno riempito lunghi verbali, rafforzato inchieste e testimoniato nei processi. Ma forse, e non l’abbiamo capito, non erano quelle destinate ai tribunali le parole più importanti delle donne di ’ndrangheta.
A circa dieci anni di distanza da una stagione che registrò in Calabria un inedito susseguirsi di collaboratrici e testimoni di giustizia, è forse arrivato il tempo di una riflessione sul lascito di quelle scelte. Anche per rispetto di quante le hanno pagate, in un modo o in un altro, con la morte (Lea Garofalo, Concetta Cacciola, Tita Buccafusca).
I fatti: tra il 2010 e il 2011 alcune donne calabresi – dall’interno di un contesto mafioso – decidono di parlare, diventando “nemiche” di famiglia. Il peso criminale dei loro cognomi (Giuseppina Pesce, dell’omonimo clan di Rosarno) e la vicinanza temporale e geografica (dalla Piana di Gioia Tauro emergono oltre a Giusy Pesce, anche le testimoni di giustizia Giuseppina Multari, Cetta Cacciola, Simona Napoli) producono una forte impressione. Si parla di “terremoto” e si confida, ottimisticamente, su un effetto domino.
Di certo c’è che la ’ndrangheta ha paura. Teme le donne che parlano, non per quello che sanno ma per quello che rappresentano: un cattivo esempio da punire. Concentrati sulla dimensione “criminale” dei loro racconti, però, non ci si accorge che le donne non avevano consegnato solo materiale utile ai magistrati.
Ripercorrendo le proprie vite, infatti, avevano tratteggiato percorsi “fotocopia”, scanditi fin dall’infanzia da presenze ossessive e assenze ingombranti. “Alle scuole superiori non mi hanno mandato, perché dovevo viaggiare da sola”; “mi sono sposata a 15 anni per avere un po’ di libertà”; “mio marito l’ha scelto la mia famiglia”; “il primo schiaffo l’ho ricevuto da fidanzata”; “mi chiudevano dentro casa a chiave”.
Nel loro mondo solo il “noi” (la famiglia-cosca) e il “loro” (forze dell’ordine). Invisibile tutto quello che, in vite normali e territori normali, avrebbe dovuto stare in mezzo: agenzie educative, servizi sociali, associazioni, alternative di vita. Un deserto, certo, legato alla debolezza strutturale di alcuni territori del Sud dove lo Stato è in divisa o in cattedra, o non è. Ma c’è altro. C’è l’idea, largamente sentita, che il destino sia deciso dal cognome, che in certe case si debba bussare solo di notte, che i diritti all’interno delle famiglie mafiose siano affari “loro” e non costituzionalmente garantiti. Sinteticamente, certe vite sarebbero battaglie perse in partenza e, quindi, inutili da combattere. Un generale cambio di prospettiva. Ecco quello che i racconti di quelle donne dovevano suggerire. Ma la sfida (se si esclude la rivoluzionaria posizione del magistrato Roberto Di Bella, convinto che anche i bambini di ’ndrangheta debbano essere liberi di scegliere) non è stata ancora raccolta.
Fonte:https://www.editorialedomani.it/