L’evoluzione decennale delle ‘ndrine in Valle d’Aosta, i legami con la Calabria e i rimpianti. «A quest’ora sarebbero tutti ricchi»
Dai primi episodi degli anni 70 e 80, fino agli anni 2000: omicidi, estorsioni e i consigli del boss. «Ad Aosta non mi hanno mai capito»
Pubblicato il: 16/01/2022 – 14:43
di Giorgio Curcio
LAMEZIA TERME Una sentenza, quella emessa qualche giorno fa dai giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello di Torino, che “prova” e per moltissimi aspetti “certifica” quella che è la presenza consolidata della ‘ndrangheta (anche) in Valle d’Aosta, regione tra le più ricche del paese e dove le ambizioni dei clan calabresi si sono sviluppate attraverso affari illeciti e contatti con soggetti politici.
La locale aostana
La presenza della “locale” di ‘ndrangheta ad Aosta, cristallizzata dalla sentenza del processo “Geenna”, è stato però ricostruita attraverso una lunga attività investigativa iniziata nel dicembre del 2014 dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Aosta, e che ha avuto origine dall’indagine “Caccia grossa” – coordinata dalla Procura di Bologna. All’epoca l’obiettivo degli inquirenti era quello di trovare due latitanti considerati “di spicco” della ‘ndrangheta ovvero Rocco e Stefano Mammoliti legati all’omonimo clan di San Luca detta “Fischiante”, e da vincoli parentali ad alcuni soggetti residente in provincia di Aosta. Attività di ricerca per la quale gli inquirenti avevano posto sotto intercettazione i telefoni cellulari di Francesco Mammoliti, condannato a 5 anni e 4 mesi e Giuseppe Nirta (classe 1965) già coinvolti in altri procedimenti tra i quali l’operazione “Minotauro” della Dda di Torino, grazie alle quali sono stati documentati una serie di incontri nel territorio valdostano tra la famiglia Nirta di San Luca e alcuni elementi di origine calabrese, contigui alla ‘ndrangheta, alcuni dei quali vicini alle famiglie dei Facchineri di San Giorgio Morgeto.
Le riunioni
Tra le riunioni più rilevanti – secondo gli inquirenti – ci sono quelle organizzate da Giuseppe Nirta, nella pizzeria “La Rotonda” di Antonio Raso, condannato a 10 anni, e quelle nel bar gestito da Giuseppe di Donato, a Sarre. E poi quelle organizzate dal fratello, Bruno Nirta, ad Aosta nel bar “Free time” e ancora nella pizzeria d di Antonio Raso, e gli incontri tra i due fratelli Nirta e Francesco Mammoliti in vari locali della Valle d’Aosta, tutti avvenuti tra maggio e luglio del 2014. Negli spostamenti ricostruiti dagli inquirenti, Giuseppe Nirta faceva spesso riferimento ad Antonio Raso, il gestore de “La Rotonda”, un vero e proprio punto di riferimento per tutti i soggetti di origine calabrese e, poi, gli esponenti politici valdostani.
L’evoluzione e l’inchiesta “Lenzuolo”
Quella delle cosche di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta è a tutti gli effetti una “evoluzione” che aveva dato i primi segnali inquietanti tra gli anni ’70 e ’80, tra omicidi ed estorsioni, poi cristallizzata agli inizi degli anni 2000, anche rileggendo vecchi procedimenti attraverso informazioni nuove e circoscritte. C’è ad esempio l’inchiesta “Lenzuolo” – coordinata dalla Dda di Reggio Calabria e condotta dai carabinieri di Aosta che ha fatto emergere un gruppo criminale che di fatto era un’articolazione delle cosche Iamonte e Facchineri, capeggiata da Santo Pansera (deceduto) e Santo Oliverio, il primo come “capo locale”, il secondo come coordinatore della struttura aostana con la “casa madre” calabrese.
«Una volta ti mandavano e ti rispettavano»
«(…) sai cosa era una volta Santo, una volta erano quei quattro amici no, che ti mandavano e rispettavano (…) tu andavi là, ti dicevano per dire no, compare, andate là sopra e comandate voi». «Mimmo Macheda era esponente diciamo… diceva: andate a Pont St. Martin comanda tizio; a Nus comanda Caio, a tale posto comanda Caio, a tale eh… per dire tutta questa gente qua, no, che hanno avuto un nome, avevano un comando no…». È questo uno dei passaggi intercettati dagli inquirenti e che meglio delineano la presenza, in Valle d’Aosta, di una vera locale di ‘ndrangheta ben strutturata e organizzata. In altre conversazioni, poi, Santo Pansera insieme a Giuseppe Neri, un tale Paolo e un’altra persona non identificata parlano di quanto sia importante «rendersi meno visibili possibile» sia per la resistenza della popolazione locale ad accettare le imposizioni e le estorsioni, sia per evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. «Ehhh là è tutto tranquillo, ognuno lavora, casa, lavoro, quando ci vediamo ci sediamo a un tavolo, facciamo una bella ‘ndrina e ci salutiamo un’altra volta». Questo il dialogo tra Santo Pansera e Francesco Cuzzocrea, intercettato il 22 aprile del 2000.
«Ad Aosta non mi hanno mai capito»
C’è invece una conversazione, quasi simbolica, e che spiega al meglio gli intenti della locale in Valle d’Aosta. Gli interlocutori intercettati sono i due Santo, Pensera e Oliverio, mentre si lamentano a metà estate del 2000 della scarsa “capacità” degli affiliati di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, partecipando alla spartizione dei lavori pubblici. «Aosta non mi hanno mai capito a me – dice Pansera – io gliel’ho detto sempre, siete storti, fai quello che ti dico io… erano tutti ricchi non avevano bisogno di niente, non andavano a lavorare là dentro l’ospedale, da nessuna parte se mi avevano ascoltato… se mi avevano ascoltato erano tutti ricchi». (redazione@corrierecal.it)