Ardita: ”Questione morale? Condannati per reati di mafia fuori dalla politica”
Jamil El Sadi 17 Giugno 2022
Dibatti alla CGIL di Catania tra il consigliere togato al Csm e Claudio Fava su questione morale, politica e magistratura
“La questione morale esiste da tempo – soleva ripetere Enrico Berlinguer -, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico”. Ed è stata proprio la questione morale l’argomento centrale attorno al quale ieri sera al Chiostro della CGIL di Catania hanno dibattuto il consigliere togato al Csm Sebastiano Ardita e Claudio Fava, candidato alle primarie del centrosinistra e già presidente della commissione parlamentare Antimafia all’Ars.
Una questione morale il cui significato “dagli altari agli archivi” – come suggeriva il titolo dell’incontro – andrebbe aggiornato, soprattutto a seguito delle elezioni che hanno reso Roberto Lagalla nuovo sindaco di Palermo.
“Si è confusa la questione morale con la questione penale, con l’idea di programmare un modello di impegno pubblico e di istituzione e poi essere adeguati a quel modello – ha detto Ardita -. La questione morale riguarda la classe dirigente di una società. La morale pubblica è tutt’altra cosa rispetto a quella privata. Non può essere confusa con una sorta di decalogo di comportamenti che si rivolgono ai cittadini”. Il consigliere togato al Csm ha poi evidenziato come dovrebbe essere premura di tutti quella di “essere capace di misurare la distanza che c’è tra il proprio dover essere nella dimensione pubblica nella quale opera e l’attività che svolge, quindi il suo essere, nella società”. Ma, come dimostrano i recenti fatti di cronaca, si tratta di un’operazione per qualcuno impossibile da compiere perché “purtroppo una parte importante del mondo pubblico, non solo la politica, non si pone questo problema di adeguatezza di se stesso al ruolo che si occupa”. E ancora: “Chi è stato riconosciuto responsabile di un reato di mafia, ad esempio, o ha favorito un’associazione mafiosa non potrebbe occuparsi in Sicilia di queste questioni. Anche perché questa regione ha vissuto una stagione di delitti eccellenti e di stragi che ancora permane e tiene in scacco molta gente – ha continuato Ardita commentando la vicenda delle recenti elezioni amministrative di Palermo in cui nella scena politica sono emersi soggetti condannati e/o arrestati, a vario titolo, per reati di mafia (Dell’Utri, Cuffaro, Polizzi e Lombardo) -. Quindi chi ha favorito coloro i quali hanno commesso le stragi non potrebbero più occuparsi di politica, ma non perché c’è una legge che lo stabilisce ma perché dovrebbe essere un richiamo alla funzione pubblica che si sta svolgendo o orientando, se si tratta di soggetti che stanno dietro le quinte e mandano avanti altri. Questo dovrebbe essere il minimo etico che riguarda soggetti che hanno una funzione pubblica, però questo non accade”.
“Poi c’è la questione dei soggetti che sono stati condannati per qualcosa o hanno fatto qualcosa su cui si sta indagando – ha spiegato -. In questi casi fare un passo indietro è un’istanza di base dell’impegno pubblico che deve essere basato sull’idea che la comunità, che si rifà a chi lo rappresenta, non deve essere gravata del peso quest’ultimo si porta dietro. Ovviamente poi le cose si possono anche risolvere (con il susseguirsi dell’iter giudiziario, ndr). Se però una persona viene condannata non può svolgere una funzione pubblica perché non danneggia se stesso ma la comunità”.
Per Ardita uno dei più grandi errori che si possono commettere è quello di “rivolgere la questione morale agli amministrati che naturalmente hanno una dimensione etica a cui dover rispondere ma nella dimensione privata”. La questione morale, ha detto, “riguarda il mondo pubblico e chi svolge funzioni pubbliche”.
Claudio Fava: legittimato l’intervento politico a condannati per reati di mafia
A seguire è stata la volta di Claudio Fava che, sempre sulla questione morale, ha commentato dicendo: “Ha a che fare con il concetto civile di un Paese e con la sua identità. Per questo cambia nel tempo. E in questo cambiamento probabilmente se ne è affievolita l’urgenza e la necessità perché l’abbiamo spesso sottoposta all’influenza e alle sollecitazioni dell’emotività”. “La questione morale – ha detto Fava – nel ’92 era cosa ben diversa rispetto a come viene letta oggi. All’epoca sarebbe stato impossibile uno scambio di cortesie e di piacevolezze tra un condannato per mafia ed un aspirante sindaco, senatore o presidente. Uscivamo da un periodo che aveva aperto la nostra sensibilità, avevamo una capacità di elezione e giudizio molto più rapida e diretta. La questione morale, però, va ricondotta ad una concretezza democratica, sostanziale e civile”.
“È del tutto illegittimo dal punto di vista del buon senso politico che si costruiscano queste intese con dei condannati in via definitiva per mafia – ha continuato entrando anche lui nel merito delle amministrative palermitane che hanno reso Lagalla il nuovo sindaco del capoluogo -. Il punto dolente non è tanto un condannato per mafia la cui incapacità e impossibilità di fare politica è stabilita dalla legge, né nel fatto che l’ex presidente della regione Sicilia o il reggitore degli affari di Berlusconi propongono e offrono consigli. Il problema è in quelli che questi consigli se li vanno a prendere”. “Quello è un gesto che legittima e restituisce una funzione politica a Totò Cuffaro e a Marcello Dell’Utri che altrimenti non avrebbero avuto – ha continuato -. Quando uno viene da te e ti dice che sei il suo referente perché gli permetterai di creare collegamenti, intese e vie preferenziali per la sua ricandidatura (in riferimento a Musumeci e Dell’Utri, ndr), in quel gesto c’è la mortificazione della questione morale. Un comportamento che legittima definitivamente, in una scelta politica fondamentale per il destino della Sicilia, un signore che ha scontato la pena ma che è stato condannato con sentenza passata in giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa”.
La questione morale e la magistratura
Nella seconda parte del dibattito il focus si è poi spostato sulla questione morale nel rapporto tra politica e magistratura alla luce degli ultimi scandali intestini che hanno travolto quest’ultima.
Ha le idee chiare Sebastiano Ardita su ciò che oggi sta avvenendo all’interno della magistratura. “È diventata verticale e grararchizzata in virtù di un movimento centrifugo e centripeto allo stesso tempo”, ha detto. E ancora: “Dentro questo mondo c’è una verticalizzazione nelle strutture di potere interno che coincidono con i gruppi che controllano il voto di 9mila persone – che non sono tante – e poi è nato l’autogoverno. L’autogoverno è nato su idea del costituente che occorresse gestirsi da sé per evitare che la politica sottomettesse i magistrati. Ma quando poche persone hanno il controllo di pochi gruppi che decidono chi deve andare al Csm mi chiedo: quant’è grande la differenza tra questo modello di subordinazione gerarchica a gruppi di potere interno e con ciò che avviene all’esterno?”.
Ha parlato di un “gioco dei mimi tra giustizia e politica” Ardita, che da qualche anno lavora dentro il Csm osservandone e criticandone i meccanismi più controversi. “Le due forme di potere si parlano” e “grazie al fatto che pochi gestiscono il potere della magistratura si può determinare un rapporto con chi gestisce il potere politico. Ecco perché la politica non ha alcun interesse di far fuori le correnti dei magistrati”.
“Le correnti sono una forma di controllo che alla fine fa a capo di poche persone. La gerarchia degli uffici giudiziari si va verticalizzando e il vero vertice sono le correnti dominanti nel Csm”. Ecco perché la politica non vuole debellare le correnti, altrimenti si instaurerebbe “il modello costituzionale e dunque di una magistratura orizzontale e dunque realmente forte, indipendente e incontrollabile”. La politica, ha concluso Ardita, “non ha nessun interesse a contrastare le correnti perché vogliono interloquire con i capi delle stesse. Vogliono mantenere la gerarchia per questa è sempre sinonimo di mancanza di libertà e autonomia”.
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