Alberto Castiglione 03 Gennaio 2025
I recenti i casi di permessi premi ai killer mafiosi Galatolo e Rotolo
Partiamo intanto da ciò che recita la legge che regolamenta l’ergastolo: “Il condannato all’ergastolo può essere ammesso, dopo l’espiazione di almeno 10 anni di pena, ai permessi premio, che sono volti a incentivare il reinserimento sociale e sono concessi solo quando il comportamento del detenuto dimostra un chiaro percorso di rieducazione. Questo termine può essere ulteriormente abbreviato per effetto delle riduzioni di pena (45 giorni per ogni semestre di pena scontata) previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario, quale riconoscimento della partecipazione prestata dal condannato all’opera di rieducazione: la cosiddetta “buona condotta”.
Nel caso dell’ergastolano, l’accesso ai permessi premio è regolato da criteri particolarmente stringenti, come appunto l’aver scontato un periodo minimo di pena, o se si tratta di detenuti condannati a questa pena per delitti di particolare gravità (come nel caso dei reati di mafia o di terrorismo), occorre anche aver collaborato con la giustizia.
Nel 2023 la scarcerazione di Giovanni Brusca, mafioso pluriomicida già condannato al regime del carcere duro secondo quanto previsto dall’art. 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, aveva scatenato particolarmente il dibattito pubblico e politico: autore di centinaia di omicidi, tra i quali quello di Giovanni Falcone e del piccolo Giuseppe Di Matteo, è stato condannato alla pena dell’ergastolo per gli omicidi commessi (oltre un centinaio, a dire dello stesso imputato) e per aver fatto parte della associazione a delinquere di stampo mafioso “Cosa nostra”. Dopo 25 anni di carcere (in parte scontato secondo il regime del 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario), sconterà il resto della pena di 4 anni in libertà vigilata. Per molti potrebbe sembrare assurdo che un pluriomicida condannato all’ergastolo possa terminare il percorso di detenzione dopo “soli” 25 anni.
Insomma, un dibattito infuocato, oltre che estremamente delicato, diviso tra chi ritiene che la scarcerazione di questi sanguinari mafiosi sia giusta e sacrosanta, avendo pagato i propri debiti con la giustizia, e chi invece pensa che sia completamente assurdo che, considerata la gravità dei fatti per i quali sono stati condannati, possano tornare liberi.
Occorre però considerare la questione seriamente e in maniera obiettiva, lontano dalle opinioni “di pancia” che spesso fanno particolare breccia nella pubblica opinione.
Il percorso detentivo di Brusca, per esempio, è stato caratterizzato dalla collaborazione con gli inquirenti, che ha permesso di assicurare alla giustizia anche altri esponenti della criminalità organizzata.
La disciplina delle collaborazioni di giustizia assicura infatti forti sconti di pena in caso in cui il mafioso condannato dovesse fornire delle informazioni alla magistratura, collaborando per l’arresto di altri esponenti della criminalità organizzata.
Le associazioni a delinquere di stampo mafioso sono particolarmente chiuse e molto raramente fanno trapelare all’esterno degli indizi inequivocabili della colpevolezza dei loro affiliati.
Gli unici a poter fornire queste indicazioni sono proprio i testimoni di giustizia. Solo loro possono fornire agli inquirenti dei dettagli preziosissimi che, se verificabili e riscontrabili, possono permettere di decapitare i vertici di intere cosche. I più importanti processi alla mafia sono stati resi possibili grazie alle rivelazioni dei pentiti.
Sicuramente, non è però assolutamente facile trovare dei condannati che vogliano diventare testimoni di giustizia, nonostante gli sconti di pena: collaborare con la giustizia significa recidere radicalmente i legami con le associazioni mafiose e scontrarsi con i suoi componenti, che spesso equivale ad accusare amici e parenti.
Appare indispensabile dunque, proteggere e concedere sconti di pena ai collaboratori di giustizia poiché sono fondamentali nella lotta dello Stato alla criminalità organizzata. Senza di loro, i processi non sarebbero nemmeno iniziati e il lavoro degli inquirenti sarebbe stato spesso sterile e infruttuoso.
Invogliare, dunque, i condannati per reati gravi a collaborare tramite gli sconti di pena è giusto e opportuno in uno Stato di diritto, cercando di ignorare, per quanto possibile, le proteste – anche lecite – sollevate dai più audaci sostenitori di un diritto che apparirebbe “tribale”.