Falange Armata e Stato: l’evasione di Riina e il ‘suicidio’ di Antonino Gioè
Luca Grossi 05 Dicembre 2021
Nell’informativa della Dia si torna a parlare anche del ‘protocollo farfalla’
Trame sotterranee, intercettazioni, colloqui proibiti in carcere dai contenutiti ancora più oscuri e piani eversivi. In due parole: Falange Armata. Un’organizzazione che, in base ad un’informativa della Dia indirizzata alla procura di Reggio Calabria, nello specifico al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nell’ambito del processo ‘Ndrangheta Stragista’, viene indicata come una parte interna della VII divisone del Sismi inquadrata nella struttura di Gladio e specializzata in tattiche di guerriglia e guerra non ortodossa.
Agli atti si fa riferimento agli introiti criminali in grado di alimentare i ‘fondi neri’ di frange deviate dei servizi segreti. Il collaboratore di giustizia Nicola Rocco Femia, tra il 15 ed il 16 giungo 2017 ha dichiarato che “i servizi ci mangiavano con i sequestri…se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendono i Servizi…è una parte invece andava a chi gestiva il sequestro” aveva dichiaro il collaboratore. Tali affermazioni avevano a loro volta trovato riscontro in base a quanto dichiarato anche alla Criminalpol Calabria da Antonio Schettini nel lottando 1996: “Abbiamo anche una serie di affari con l’estero, traffici di armi, materiale reattivo, nucleare, cambio di valuta, soldi, investimenti con l’estero, l’ultimo in ordine di tempo, questo l’ho vissuto io personalmente, abbiamo la storia della falange armata“. Lo stesso collaboratore ha poi definito la falange armata “creatura della ‘Ndrangheta“.
E poi ancora ci sono le dichiarazioni di Antonino Parisi del 4 giugno 2013 davanti al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Parisi in quell’occasione aveva parlato di “servizi segreti corrotti” di “Stato – Mafia“, di “Berlusconi” e di un accordo con “i Colombiani che hanno finanziato questi del Sismi” attraverso dei presunti proventi del traffico di cocaina. È tutto scritto e documentato in un’informativa della Dia che ‘ANTIMAFIADuemila‘ ha avuto modo di leggere. Nel documento, oltre alle nuove informazioni in merito allo ‘scenico’ attentato all’ex primo cittadino Giuseppe Scopelliti, si parla anche di “fatti seri”, che dimostrano, come ha riferito Antonio Parisi, che fra “Mafia-‘Ndrangheta c’è Stato“.
Il protocollo farfalla e la morte di Antonino Gioè
Agli atti è stata inserita anche la dichiarazione dell’Agente di Polizia penitenziaria, tale Ciliegio (nessuno aveva mai interrogato all’epoca), che ‘vigilava’ il reparto dove si trovava il detenuto Antonino Gioè trovato cadavere tra il 28 e il 29 luglio del 1993, impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollarono frettolosamente il fatto come un suicidio, ma oggi è evidente a tutti che dietro a quel decesso vi fosse molto altro. Le dichiarazioni dell’agente di vigilanza non lasciano dubbi, nel carcere di Rebibbia gli 007 incontravano i detenuti, in segreto: “Per quella che è la mia esperienza carceraria – si legge nell’informativa – accadeva in quel periodo in diversi penitenziari, ma anche a Rebibbia, che laddove il detenuto avesse dovuto incontrare riservatamente dei soggetti istituzionali, ciò sarebbe avvenuto utilizzando l’espediente della comunicazione di colloquio con l’avvocato. In buona sostanza, il detenuto, informato della presenza dell’avvocato, veniva accompagnato alla sala colloqui dove, secondo accordi diretti che passavano dalla direzione o dal capo delle guardie, bypassando noi addetti alla vigilanza, il detenuto teneva incontri riservati con le forze dell’ordine o con i servizi segreti senza che sui registri venisse annotata alcuna precisione. Quindi senza lasciare traccia dell’avvenuto incontro”.
Falange Armata e Salvatore Riina
Secondo le dichiarazioni rilasciate di Filippo Malvagna nel 2018 nell’ambio del processo ‘Ndrangheta Stragista, nella riunione di Enna ( dove Totò Riina avrebbe annunciato al gotha di Cosa nostra la strategia stragista) si sarebbe deciso di adottare una sigla per rivendicare gli attentati che sarebbero stati messi a termine, ovvero quella della “Falange Armata”. Il collaboratore ha spiegato di essersi occupato personalmente di attuare una di queste rivendicazioni: “C’è il sindaco di Mister Bianco che in quel periodo parlava contro le organizzazioni mafiose di cui noi facevamo parte. Gli dissi (allo zio Giuseppe Pulvirenti che gli parlò per la prima volta di “Falange Armata”, ndr) possiamo intimorire questo Signore in modo da portare a termine questa direttiva che sta arrivando da Palermo. E questo dovrà essere rivendicato con la sigla ‘Falange Armata’, una frase filo terroristica perché non dobbiamo farli capire da dove arrivano questi attacchi, come se ritornasse il terrorismo; così allentano un po’ la morsa nei confronti della mafia”.
E poi ancora: “Incaricai un ragazzo a raccogliere informazioni e fare le telefonate al sindaco di Mister Bianco. E così facemmo”.
Malvagna ha anche riferito della “scalata” nelle gerarchie di Cosa nostra catanese da parte di Santo Mazzei, detto “u’ carcagnusu”, affiliato a Cosa nostra, e di come questo si sia messo a disposizione per “portare avanti questo tipo di strategia per fare degli attentati”. “Lui (Santo Mazzei, ndr) aveva degli appoggi e degli agganci a Torino e Milano si era proposto lì e in seguito ha avuto un qualcosa da fare con degli attentati in Toscana a Firenze”.
Secondo quanto hanno detto altri collaboratori di giustizia, come Giovanni Brusca e Giuseppe Di Giacomo, Mazzei avrebbe rivendicato con la sigla “Falange Armata” la collocazione del proiettile d’artiglieria nel Giardino di Boboli a Firenze nel ’92.
Il piano per l’evasione del Capo dei Capi
Il processo ‘Ndrangheta stragista è costato in corte di Assise il settimo ergastolo al boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il primo al mammasantissima calabrese, Rocco Santo Filippone. Sono condanne che dimostrano come la ‘Ndrangheta non giocava in semplice ruolo marginale nella stagione stragista. “A confermarlo – dicono fonti investigative – è anche la fallita evasione di Riina“.
A raccontare del piano di evasione del Capo dei Capi è stato per la prima volta il collaboratore di giustizia Pasquale Nocera. In un incontro organizzato in un hotel di Nizza, vicino Montecarlo, a cui hanno partecipato anche il figlio di Domenico Libri e alcuni soggetti dei servizi: “C’era questo uomo del Sisde, Broccoletti (l’ex direttore amministrativo del Sisde, allontanato nel 1991 dagli apparati di sicurezza e coinvolto nello scandalo dei fondi neri, ndr) e un agente libico. Questo era uno che vendeva il petrolio. Vittorio Canale (membro dei cavalieri di Malta presumibilmente legato ai De Stefano e ai Libri ndr) poi mi disse che Broccoletti e questo soggetto lo avevano incaricato di organizzare l’evasione di Riina dal carcere. E gli consegnarono anche una prima rata con un acconto di centomila dollari. Ma il totale era molto di più. A cosa servivano i soldi? Ad assoldare un gruppo di 20 mercenari e procurare un elicottero. Da quello che ricordo questi mercenari dovevano essere serbi. Perché io, che militavo con la legione straniera, ero già rientrato a Belgrado dopo la Guerra del Golfo. C’erano già contatti con questi mercenari“. Secondo il racconto del teste quel denaro fu “camuffato” facendolo passare, assieme ad altro denaro, ad una vincita del Casinò di Montecarlo.
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