È la regione con il maggior tasso di intimidazioni nei confronti di chi amministra la cosa pubblica. I sindaci i più colpiti. Costabile: «Il problema (vero) è culturale»
Pubblicato il: 26/03/2023 – 15:00
di Roberto De Santo
COSENZA Una lunga ed interminabile scia di minacce, intimidazioni che a volte finiscono anche con le vie di fatto: atti incendiari, danneggiamenti e aggressioni fisiche. Il rosario di episodi che colpiscono gli amministratori pubblici in Calabria sembra inarrestabile. L’ultimo ha coinvolto l’assessore all’Urbanistica e vicesindaco di Vibo Valentia, Pasquale Scalamogna. Aggredito fisicamente il 22 febbraio scorso dal proprietario del chiosco abusivo che il Comune stava procedendo a demolire. Una violenza perpetrata durante le fasi iniziali alle operazioni di abbattimento vero e proprio della struttura realizzata negli anni ’60 in località Capannina e consumata in pubblico, davanti a testimoni che sono intervenuti bloccandolo.
Ma è solo uno dei tanti casi – non isolati – di attacchi a chi amministra la cosa pubblica in Calabria.
Un fenomeno che per la verità attraversa tutta la Penisola, ma che nella regione in cui primeggia lo strapotere ‘ndranghetistico ne diviene una sorta di corollario.
Un modo di voler imporre il primato delle faccende personali nella scaletta delle priorità di chi rappresenta lo Stato piuttosto che gli interessi generali della collettività. Un’inversione cioè del concetto che dovrebbe stare alla base dell’agire degli amministratori pubblici. E così avviene che sempre più spesso sindaci, esponenti delle giunte comunali, come anche consiglieri comunali, esponenti istituzionali di Province ma anche di società pubbliche, diventano bersaglio di atti intimidatori. Volti per lo più ad interferire nelle funzioni di chi rappresenta lo Stato nelle varie articolazioni.
In Italia i casi censiti da “Avviso Pubblico” – l’Associazione nata nel 1996 per riunire gli Amministratori pubblici che si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica – in dieci anni sono stati 4.747, in gran parte registrati nel Sud e nelle Isole (69,7%). Stando alle analisi condotte dall’Associazione, emerge che ogni 20 ore un amministratore pubblico subisce minacce. Si tratta per lo più di sindaci che finiscono nel mirino. Ad esempio nel corso del 2021, anno analizzato da report, il 70% degli atti perpetrati contro gli amministratori pubblici hanno riguardato i primi cittadini. Ed i centri più piccoli, stando sempre a quelle rilevazioni sono stati quelli più colpiti: il 42% dei casi in Comuni al di sotto dei 20mila abitanti.
Una dimostrazione che l’arroganza della violenza cresce in quelle realtà dove il rapporto tra cittadini e rappresentati istituzionali è più diretto. E a pesare non vi è dubbio, c’è l’humus criminale delle aree colpite. Il 20% degli atti intimidatori censiti hanno interessato Comuni già sciolti per mafia. Il dato più alto mai registrato rilevano quelli di Avviso pubblico.
Un quadro che per caratteristiche è rimasto immutato anche nel corso del 2022. Anche se in diminuzione per intensità di casi. Nell’esame redatto dal ministero dell’Interno sui primi 9 mesi dello scorso anno, infatti, c’è stata una flessione del 16,4% rispetto allo stesso periodo del 2021. Ma questo calo non ha interessato la Calabria: che di fatto ha confermato il dato precedente. A dimostrazione che gli amministratori pubblici calabresi restano più di altri esposti alle intimidazioni.
I dati calabresi
Ed i numeri ne confermano l’assunto.
Nell’ultimo report realizzato dal Dipartimento di Pubblica sicurezza, Direzione centrale della Polizia criminale che focalizza la situazione degli atti intimidatori subiti dagli amministratori locali, nei primi 9 mesi dell’anno scorso emerge con prepotenza questo record negativo.
Infatti la Calabria è la prima regione in Italia per incidenza del numero di intimidazioni in rapporto alla popolazione (100 mila abitanti).
Su un totale di 460 casi registrati nei 9 mesi del 2022, la media nazionale è di 0,76 episodi ogni 100 mila abitanti, la Calabria raggiunge una media di 2,57 per 100 mila abitanti, staccando di gran lunga le altre due regioni posizionate nella zona alta di questa triste classifica: Abruzzo (1,68 per 100 mila) e Sardegna (1,65 per 100 mila).
Ma c’è di più tra le dieci province in cui si sono registrati maggiori casi di atti contro amministratori pubblici “brillano” due territori calabresi: il Crotonese e il Cosentino.
Il primo risulta addirittura secondo nel Paese per numero di intimidazioni (22 nei primi mesi del 2022), mentre la provincia bruzia è nona: con 13 episodi nello stesso arco temporale.
In termini assoluti l’andamento dei casi di violenze perpetrate ai danni degli amministratori pubblici restano stazionari: tra gennaio e settembre scorso si sono registrati 50 casi. Dodici mesi prima, il dato era pressocché uguale (51).
E a divenire bersaglio anche in Calabria sono per lo più i primi cittadini. Nei primi 9 mesi del 2022, circa la metà di episodi hanno riguardato i sindaci (24 su 50), ma ci sono anche consiglieri comunali che per numero di atti intimidatori subiti seguono i sindaci: 10. Poi ci sono i componenti delle giunte comunali calabresi (7 in 9 mesi). Nel novero ci sono poi gli atti perpetrati ai danni di due presidenti di consigli comunali, 5 soggetti che amministrano un bene pubblico calabrese, un commissario straordinario e un’altra persona che detiene un incarico pubblico nella regione.
Nel decennio 2013-2022 si registra una diminuzione delle intimidazioni in Calabria che hanno raggiunto il tetto di 113 nel 2016 (109 nel 2014 e 90 nel 2013), per poi iniziare a scendere nel 2018 (58) e risalire, purtroppo, nel 2021 a quota 73 nel report finale dell’anno. Ma la regione in tutti questi anni è rimasta saldamente nella zona alta di questa triste classifica.
Costabile: «Calabria è una regione a sovranità limitata»
«La prima sfida che un sindaco in Calabria è chiamato ad affrontare è la promozione di una nuova cultura della cittadinanza responsabile. Soprattutto in questa terra a sovranità limitata». Va diretto al “cuore” del problema Giancarlo Costabile, ricercatore Dices che insegna Storia dell’educazione alla democrazia e alla legalità all’Università della Calabria. Anche se, secondo il docente dell’Unical, «la partita della resistenza in Calabria è fortemente compromessa». E per affrontare il fenomeno delle intimidazioni per Costabile, «non si tratta di introdurre nuove norme» ma di vincere la principale sfida: «Il problema (vero) è culturale», dice.
La catena di intimidazione nei confronti di chi amministra la cosa pubblica in Calabria, non si arresta. Anzi. C’è solo la ’ndrangheta dietro quegli atti?
«Il tema è complesso e, per più ragioni, di difficile analisi. Per quanto concerne la nostra regione è difficile negare la matrice criminale delle intimidazioni. Il nostro tessuto socio-produttivo è disgregato, fragile, non immune da profili di omertà, caratterizzato da evidenti bisogni e urgenze sociali, tutte questioni che rendono gli amministratori pubblici, in virtù del loro ruolo decisionale, inesorabilmente un (facile) bersaglio dei gruppi criminali. Infine, è opportuno non dimenticare mai che l’uso pubblico della violenza di matrice mafiosa ha, in territori come il nostro, un valore “pedagogico” per alimentare una gerarchia di potere/i con cui legittimare un predominio politico-culturale nella gestione delle comunità locali. “Lo Stato (quello vero) siamo noi”, ci dicono gli ’ndranghetisti». Quali strumenti hanno gli amministratori calabresi per difendersi. Oltre la via penale dell’esposto?
«Direi, purtroppo, non molti. Parliamoci chiaro, lo dobbiamo a noi stessi e a chi ci legge. La Calabria è una regione a sovranità limitata perché all’assenza (endemica) dello Stato si è sostituita una statualità di matrice massomafiosa che nei fatti rappresenta la vera dorsale del potere pubblico a queste latitudini. Non ci sono istituzioni scevre da questi perversi condizionamenti criminali: dalle università alla magistratura, dalla politica alla sanità, senza dimenticare il mondo delle professioni e il sistema imprenditoriale. Se a ciò aggiungiamo la sistematica e vergognosa opera di delegittimazione della magistratura inquirente (e non parlo soltanto di Nicola Gratteri) in nome di un garantismo peloso (e prezzolato), possiamo affermare con realismo che la partita della resistenza in Calabria è fortemente compromessa. Se le comunità locali sono imprigionate in schemi di potere clanico, se il linguaggio sociale è il risultato di una sistematica pedagogia estorsiva, come fa un sindaco a difendersi da una trama di poteri che si muove con grande disinvoltura tra uso pubblico e privato della violenza? L’unica risposta alle intimidazioni (soprattutto di matrice mafiosa) è la costruzione dal basso di una coscienza popolare e civile matura, in grado di agire socialmente per la difesa dei diritti di prossimità che la Costituzione repubblicana tutela con chiarezza adamantina. La prima sfida che un sindaco in Calabria è chiamato ad affrontare è la promozione di una nuova cultura della cittadinanza responsabile. E con franchezza, non è che se ne vedano molti impegnati in questa direzione».
Quali sono, secondo lei, le principali difficoltà che deve affrontare chi amministra un ente locale in Calabria?
«A parte le notissime difficoltà economiche in cui versano le casse comunali, a mio avviso, il problema principale dei nostri amministratori è determinato dalla condizione culturale di questa terra. Quando i diritti vengono derubricati a favori, e il clientelismo (mafioso) diventa la narrazione sociale prevalente, intervenire per ri-territorializzare uno spazio urbano può diventare qualcosa di particolarmente difficile perché ti devi scontrare con una mentalità collettiva che è contaminata da questi veleni sociali. I sindaci sono il primo avamposto dello Stato nei territori e per tali ragioni vengono immediatamente gravati di responsabilità che vanno oltre quelle che le loro spalle possono oggettivamente reggere. In Calabria il problema politico è soprattutto l’urgenza culturale di ridefinire l’orizzonte della vita e il significato dell’esperienza sociale. La vera partita del cambiamento per i sindaci si gioca su questo: costruire coesione sociale e un nuovo senso di appartenenza allo Stato. È arrivato il momento di rilanciare una pedagogia nazionale di “civilizzazione statuale”: lo Stato (della Costituzione) siamo tutti noi».
Per contrastare questi fenomeni l’attuale legislazione è sufficiente?
«Il problema nel nostro Paese non è mai stato determinato dalla carenza di norme e leggi ma dal loro rispetto e attuazione concreta. Nel caso specifico lo Stato è recentemente intervenuto con la legge 105 del 2017 (norme a tutela dei corpi politici, amministrativi o giudiziari e dei loro singoli componenti) per inasprire le sanzioni nei confronti di chi colpisce gli amministratori locali. Inoltre, esiste un fondo sugli atti intimidatori del quale sono destinatari gli enti locali i cui amministratori hanno subito atti di questa natura, direttamente alla propria persona o a familiari, o il cui patrimonio è stato oggetto di episodi di danneggiamento. Nello specifico, il fondo ha una dotazione finanziaria di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2022 al 2024. Questo non significa che non si possa migliorare ulteriormente il quadro normativo vigente e gli strumenti di prevenzione e contrasto. Ma insisto: il problema (vero) è culturale».
Sembra che dopo l’alta tensione morale sollevata dalla stagione stragista della mafia, l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti del fenomeno si sia attenuato. C’è anche questo alla base della recrudescenza degli atti contro gli amministratori?
«L’opinione pubblica di una società è il prodotto delle politiche culturali e educative che le classi dirigenti impongono e legittimano con i loro comportamenti. Non è una provocazione sostenere che la lotta alle mafie, come ricorda con una certa frequenza il procuratore Gratteri, è stata relegata ormai ad argomento del tutto secondario tra le priorità del Paese. È vero: le mafie uccidono di meno rispetto agli anni Ottanta e Novanta del secolo passato. Ma in questo periodo, nonostante i successi investigativi, non è affatto diminuita la loro capacità di condizionare la struttura economico-sociale del nostro territorio nazionale. Il rapporto 2021 dell’Eurispes quantifica in 220 miliardi di euro, pari all’11% del Pil nazionale, il fatturato dell’economia mafiosa. La verità, triste e amara, è che il capitalismo mafioso è stato ufficialmente “sdoganato”. La Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi evidenziava nel 2018, con estrema preoccupazione, la forte domanda di servizi e di prestazioni illegali da parte degli imprenditori italiani a tal punto da dichiarare esplicitamente: “Le mafie sono diventate, nonostante la repressione, protagoniste di una parte dell’economia italiana e internazionale. Il consenso culturale, ridottosi in ambienti popolari, lo hanno riconquistato nelle élite imprenditoriali di diversi settori economici; il consenso è passato dal basso della società alle élite”. Siamo dinanzi a un “modello mafiogeno” di società, per dirla con una categoria cara al sociologo Umberto Santino. In uno scenario del genere è chiaro che le forze criminali tendono a riproporre la strategia di controllo delle comunità locali e delle periferie del Paese per mantenere inalterato il loro peso sociale e militare, cioè il consenso elettorale e la capacità di gestire la forza pubblica ai fini dell’ordine sociale. Su questi temi, il sociologo calabrese Pino Arlacchi, già dagli anni Ottanta di fine secolo, aveva le idee particolarmente definite».
Cosa può fare la politica calabrese per contrastare questo fenomeno?
«La politica calabrese, al di là di sterili proclami e retorica di basso profilo, è fortemente inquinata e condizionata da apparati di potere che nulla hanno a che fare con lo Stato e la Costituzione repubblicana. In Calabria, il vero tema è la rottura radicale di questi perversi intrecci di potere che si sono sostituiti all’autorità dello Stato e alla sovranità che lo stesso avrebbe dovuto esercitare sui territori. Le intimidazioni, a Sud di Roma, necessitano di una risposta culturale prima che politica. E questa passa per una rivoluzione pedagogica delle coscienze in grado di farsi linguaggio del riscatto attraverso l’esercizio effettivo dei diritti. Se non interveniamo nel tessuto sociale per ri-costruire la grammatica dello “stare al mondo e con il mondo” – direbbe l’educatore brasiliano Paulo Freire –, fenomeni di questa matri Si parla tanto di cultura della legalità. I progetti delle scuole in Calabria sono sempre innumerevoli. Forse non sono sufficienti per veicolare messaggi positivi?
«Guardi il problema è la pedagogia che muove questi progetti nelle scuole (ma anche nelle università calabresi). Se la parola legalità è uno strumento per intercettare cospicui finanziamenti pubblici in modo da tenere in piedi, paradossalmente, un impianto di relazioni istituzionali autoreferenziali, temo che questa progettualità sia non solo inutile ma esplicitamente dannosa. Abbiamo bisogno di una pedagogia schierata, come insegnava don Lorenzo Milani a Barbiana, sorretta da una idea di società alternativa a quella che in Calabria esiste e viene purtroppo legittimata proprio dalle agenzie educative preposte alla formazione delle coscienze giovanili. Una società radicalmente “altra” rispetto a quella basata sul ricatto e l’inginocchiatoio, che sappia mettere al centro della proposta educativa il valore prassico delle parole. Sono le parole che cambiano il mondo. Ciò avviene, però, quando le stesse prendono la strada dei comportamenti e delle scelte pubbliche responsabili. Parole costruite “in situazione”: parole verificate nelle prassi di vita delle comunità, e non (soltanto) nelle aule scolastiche per soddisfare spesso la vanagloria di una ristretta élite interessata a promuovere più sé stessa che non la società della Costituzione. Che è, invece, schierata ed è netta nel suo disegno strategico: quello dell’articolo 3 comma 2 che guarda allo Stato come strumento vero di civilizzazione attraverso la rimozione delle disuguaglianze. Le nostre scuole dovrebbero rileggere don Milani e l’esperienza di Barbiana che è stata una grande fabbrica di parole libere, vere, profonde: parole di coscientizzazione e non parole paludate, imprigionate nel didattichese della peggiore burocrazia». (r.desanto@corrierecal.it)