IL Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2019
Francesco Pazienza, le verità dell’ex 007: “Andreotti mi disse: come si fa smettere l’avvocato di Sindona?”. Su FQ MillenniuM in edicola
Il protagonista di tante trame parla a ruota libera al mensile diretto da Peter Gomez, in un numero che fa luce sui cosiddetti “misteri italiani” cinquant’anni dopo la strage di piazza Fontana. Le rivelazioni sui politici italiani, la cena con Pablo Escobar, gli scambi di favori con il clan Gambino
di Giuseppe Pipitone
Esistono i servizi deviati? “Ma deviati da chi? Da che cosa? Esistono i servizi. Tutto il resto è una cazzata giornalistica”. E i misteri di Stato? “Ma al massimo ci sono i segreti di Stato”. Che differenza fa? “Una cosa segreta non è un mistero. Perché qualcuno che sa alla fine c’è sempre. Soprattutto se il presidente del Consiglio in carica era Giulio Andreotti o Francesco Cossiga”.
Parla a ruota libera Francesco Pazienza, una vita nei servizi segreti, indicato come il capo del “Supersismi”, coinvolto in numerose vicende giudiziarie: dal crac Ambrosiano al depistaggio sulla strage di Bologna. FQMillenniuM lo ha raggiunto nel suo buen retiro di Lerici, in Liguria, dove è tornato ad abitare dal 2007, quando lo hanno rilasciato per l’ultima volta, dopo 12 anni di carcere. Il suo lungo racconto, che spazia dalle trame di casa nostra ai grandi intrighi internazionali, si può leggere sul mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 12 ottobre. Un numero dedicato alle stragi di Stato in occasione dei cinquant’anni dalla bomba di piazza Fontana.
Pazienza continua a professarsi innocente per i reati che gli sono stati contestati. La strage di Bologna? “Io il 2 agosto 1980 ero a New York. Mambro e Fioravanti (i due terroristi dei Nar condannati in via definitiva, ndr)? Puoi dare un incarico sporco a dei ragazzotti, ma il giorno dopo devi eliminarli. Questi sono ancora vivi”, dice l’ex 007. E comunque, sostiene, “Bologna non l’hanno fatta i servizi, al mio amico Cossiga una volta gli scappò: era un transito”. Sarebbe? “Una bomba esplosa per sbaglio. Io volevo dirlo ai giudici dell’ultimo processo, ma non mi hanno voluto sentire”.
Chissà come è andata veramente. Di sicuro c’è solo che la vita di Frank Pazienza, per come la racconta lui, è molto simile a un film: una di quelle pellicole di spie, spregiudicate missioni segrete e colpevoli che alla fine la fanno sempre franca. La cena con il re dei narcotrafficanti Pablo Escobar (“Mi propose di lavorare con loro, rifiutai”). E poi l’amicizia con Manuel Noriega, l’ex dittatore di Panama di cui ricorda ancora il numero di telefono diretto, l’escort più costosa di Parigi scovata per l’ammiraglio Eduardo Massera, piduista e membro della sanguinaria giunta militare argentina, fino al “Billygate” orchestrato con Mike Ledeen per incastrare il fratello del presidente Usa Jimmy Carter e azzopparlo nella corsa presidenziale vinta poi, nel 1980, da Ronald Reagan.
E poi i contatti con il clan dei Gambino, la più potente delle cinque famiglie mafiose di New York, grazie alla quale sostiene di aver sventato un attacco all’ambasciata jugoslava di Roma da parte degli ustascia, terroristi croati di estrema destra. “Andai a incontrare il loro capo per convincerlo a evitare di fare casino, ma niente: diceva che loro avrebbero fatto quello che volevano perché erano protetti dalla Cia. Allora andai a prendere un caffè al bar Milleluci, il quartier generale dei Gambino. Quell’attentato non lo fecero mai”. Il motivo? “Quella notte i Gambino fecero saltare in aria l’auto del capo degli ustascia”.
Torna spesso sulle trame che hanno attraversato la storia italiana dagli anni 70 e 80, Pazienza: “I servizi erano partitizzati come la Rai”, dice. “Santovito era un uomo di Giulio Andreotti, la I divisione la guidava uno indicato dai comunisti. La II divisione era diretta da un pappagallo della Cia. Poi c’era il centro raggruppamento Roma che spiava i politici italiani. C’era un centro d’ascolto, ovviamente illegale: tutto finiva sul tavolo di Santovito che poi lo passava ad Andreotti”. A questo proposito svela un aneddoto mai raccontato ai giudici: “Un giorno Santovito mi mandò da Andreotti. Io vado e il presidente mi fa: c’è questo avvocato di Sindona che sta dicendo un sacco di stupidaggini. Come si fa a farlo smettere? Gli consigliai, con un po’ d’ironia, di rivolgersi alla divina provvidenza. Rispose dicendo che l’aveva già fatto e per questo ero lì”. E ancora: “Prima della deposizione di Palermo, mi chiamò l’avvocato della Democrazia cristiana, Giuseppe De Gori, e mi offrì 200 milioni. Giuro: aprì la cassaforte e tirò fuori una busta piena di mazzette con scritto Banca d’Italia. Queste, mi fece, te le manda il presidente. Io presi un pacco di banconote, tirai fuori 400 mila lire per le spese di viaggio e andai via”.