Morire nei campi, vivere nelle baracche: anche la mafia ha il suo ghetto
Si trova nei pressi di Foggia e ogni anno viene popolato dai lavoratori stagionali, sfruttati nei campi dal caporalato e dalle agromafie. Una radio tra le baracche racconta le storie degli schiavi delle campagne
Selene Cilluffo 5 settembre 2015
Cartone, teloni di plastica e tubi che si mettono insieme per cercare di avere un riparo, una sorta di casa dove tornare dai campi. Sono decine le baracche autocostruite nei pressi della provincia di Foggia che in estate vede arrivare oltre duemila braccianti. Tutti ammassati a vivere nel ghetto più grande d’Italia per raccogliere i pomodori della Capitanata, una delle più importanti zone di produzione del sud Italia. Loro sono l’ultimo anello di quella che le associazioni “daSud”, “Terra! Onlus” e “Terrelibere.org” hanno definito #FilieraSporca, un modello produttivo gestito dai grandi commercianti locali in cui si inseriscono gli interessi dei caporali e della criminalità organizzata.
Perché prima di arrivare sulla nostra tavola, come conserva, i pomodori passano per le mani dei braccianti, reclutati dai caporali che non pagheranno più di tre euro a cassetta (inutile dire “in nero”). Chi gestisce le piazze dei lavoratori è spesso legato alle mafie: il settore agricolo è il primo anello di una catena che stringe su tutta la filiera alimentare, dalla produzione agricola all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla grande distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione, con un fatturato pari a 12,5 miliardi l’anno.
Un enorme affare che che noi ci “mangiamo” e che parte con lo sfruttamento di chi vive nel Ghetto, almeno per una stagione. Sono soprattutto migranti, spesso in attesa di documenti nei centri di accoglienza. C’è addirittura chi viene dal Cara di Mineo, il centro finito sotto la lente dei giudici con lo scandalo di Mafia Capitale, noto alle cronache anche per le numerose proteste dei residenti.
IL CAPORALATO – Quello del caporalato è un fenomeno che coinvolge tutto il nostro Paese, da nord a sud, dalla frutta alla verdura. Nel ghetto vivono coloro che questo sfruttamento lo vivono sulla propria pelle: c’è chi sognava l’Europa e ora si pente, chi è scappato dalla guerra e dalla persecuzione, chi aveva iniziato a studiare e sognava di finire qui. Negli ultimi quattro anni le storie di queste persone sono state custodite e raccontate da una radio, che d’estate si istalla proprio tra le baracche: Radio Ghetto libera le voci di tutti i braccianti in italiano, francese e in tante lingue africane.
RADIO GHETTO – Tutto è cominciato nel 2012 grazie alla rete Campagne in lotta, Io ci sto e l’agenzia radiofonica Amisnet, che ha portato nella baraccopoli pugliese tutta la strumentazione necessaria per l’avvio delle trasmissioni. Così tutte le estati la radio diventa lo strumento di comunicazione e dibattito privilegiato del ghetto, tra e per i suoi abitanti. Le trasmissioni sono interamente curate dai braccianti: si parla delle condizioni di vita e lavoro nelle campagne, si ascolta musica e si raccontano le proprie esperienze, di quei viaggi per arrivare in Europa e dell’attesa nei centri di accoglienza in Italia. Uno spazio libero dove rilassarsi dopo la fatica del lavoro, denunciare, arrabbiarsi ma anche immaginare alternative possibili.
A volte la radio è un luogo in cui chiedere aiuto, come per chi non sa bene l’italiano e ha bisogno di chiamare un medico perché si è fatto male durante la raccolta. O per chi ha bisogno di una mano per la richiesta di documenti e permessi di soggiorno. A volte invece è il luogo da cui si diffonde il grido di rabbia per i soprusi dei caporali, che chi lavora nei campi deve patire ogni giorno: “Se non ci fossimo noi qui marcirebbe tutto” dicono ai microfoni.
È vero: senza la raccolta di frutta e verdura l’industria alimentare (vanto del nostro Paese) non andrebbe da nessuna parte. Il meccanismo del caporalato sta alla base di molte grandi aziende, che distribuiscono prodotti in tutto il mondo, e con lo sfruttamento della manodopera migrante abbattono i costi di produzione: “I caporali hanno un ruolo preciso: organizzano la forza lavoro in maniera rapida e permettono alle aziende di risparmiare. Occorre colpire lo strapotere delle imprese. A pagare il prezzo più alto sono i braccianti che lavorano in condizioni disumane. Nella mancanza di controlli e nella cancellazione dei diritti c’è sempre chi si arricchisce sulla pelle dei più deboli” spiega Antonello Mangano, autore del rapporto “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo“.
Uno sfruttamento che va ben oltre i nostri confini: S. è uno dei braccianti del Ghetto, ha 25 anni e la prima parola che ha imparato in italiano è stata “pomodoro”, perché la leggeva sulle bottiglie di passata che arrivavano anche a casa sua, in Mali. “Queste persone lavorano in un settore che produce ed esporta anche nei paesi africani, affossandone l’economia” spiega Marco Stefanelli, che ha seguito il progetto di Radio Ghetto sin dal primo anno.
Uno degli obiettivi delle trasmissioni è proprio quello di dare voce a queste storie di sfruttamento, dietro cui ci celano grandi interessi economici della malavita. Chi lavora e vive al ghetto aspetta la radio ogni agosto, diventata oramai un punto di riferimento per sfogarsi e confrontarsi. Uno dei tanti luoghi d’incontro nella città evanescente fatte di baracche, in cui oltre alle abitazioni dei braccianti si trovano piccoli negozietti, bar e piccoli luoghi di ritrovo sempre autocostruiti.
Mentre all’Expo si celebra il cibo e si parla di come “nutrire il pianeta”, a qualche chilometro di distanza la criminalità organizzata allunga e fortifica i propri tentacoli nelle campagne, partendo dallo sfruttamento e dal facile reclutamento della manodopera. Per questo Radio Ghetto è un progetto politico: l’obiettivo è quello non solo di dare voce e diffondere le storie di chi vive sulla propria pelle il peso delle agromafie ma anche di far comprendere a chi si siede a tavola, quanti soprusi e malavita si celano dietro a una bottiglia di passata.