Convegno Sorrento 20 settembre 2013
“Dalla retorica alla denuncia”
Per un’antimafia sempre più incisiva al servizio del Paese e degli onesti
Relazione Dott. Antonio Esposito:
Mafia e società civile
La mafia è una grave patologia della società; è una malattia antica, che è diventata particolarmente virulenta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e ancora oggi contrassegna una crisi profonda della legalità democratica: il peso delle mafie che lacerano il tessuto sociale e l’economia soprattutto nelle regioni meridionali e in particolare in Campania (dove opera la camorra), in Calabria (dove opera la ‘ndrangheta), in Puglia (dove opera la Sacra corona unita) e in Sicilia (dove operano Cosa nostra e la Stidda) estendendo i loro tentacoli in tutto il Paese.
Secondo il codice penale italiano (art.416 bis):
“l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti, per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”.
Questa definizione fotografa le principali caratteristiche di alcune associazioni criminali la cui azione risulta particolarmente deleteria perché, a differenza di
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altri ambiti delinquenziali, esercita un controllo su settori della società, dell’economia e della politica inquinando le istituzioni e sviando l’esercizio dei poteri pubblici dai fini a cui sono preposti. L’organizzazione mafiosa interferisce profondamente con la legalità non solo perché ricorre al delitto per realizzare i suoi fini, ma anche per le sue caratteristiche intrinseche. Essa infatti crea, nelle zone dove è più forte il suo potere, una sorta di sub ordinamento giuridico, in cui il territorio è diviso in circoscrizioni (i mandamenti in Sicilia) controllate da un’autorità che li governa (la famiglia mafiosa), amministrando la giustizia (per esempio, punendo coloro che commettono delitti non autorizzati o infrangono le regole mafiose), controllando l’economia legale (per esempio, i flussi di denaro per opere pubbliche o altri investimenti) e organizzando attività economiche illegali, che in tanto si possono svolgere in quanto l’organizzazione controlla il territorio (per esempio, lo smaltimento di rifiuti tossici e nocivi), difendendo militarmente il territorio da incursioni di poteri rivali. Quest’attività di controllo e governo del territorio presuppone l’infiltrazione negli enti pubblici che gestiscono il flusso di denaro, che avviene o con il ricorso alle intimidazioni o con il condizionamento della vita politico-amministrativa attraverso la selezione di un personale politico compiacente. Quindi la mafia non è una semplice (per quanto pericolosa) attività criminale, ma è una sorta di antistato.
Liberare la società e l’economia dalla morsa del potere mafioso è una missione fondamentale, non solo dello Stato democratico, ma di ogni ordinamento statale in quanto tale. Il contrasto all’attività delle mafie nell’ordinamento democratico non si fa ricorrendo a tribunali speciali o a provvedimenti repressivi indiscriminati ma attraverso la valorizzazione e l’efficienza degli strumenti di indagine e la diffusione della cultura della legalità che comprende anche la collaborazione e il sostegno dei cittadini con quei magistrati e con gli
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uomini delle forze dell’ordine che si battono con coraggio e determinazione nel contrastare il crimine organizzato.
Nel nostro Paese, a partire dagli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta, specialmente in Sicilia, vi è stata un’impennata del condizionamento che la mafia esercita nei confronti delle istituzioni pubbliche attraverso uno scontro di tipo militare che ha portato a una serie gravissima di attentati. Basti pensare che in questo periodo la mafia ha ucciso, fra gli altri, il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980); il capo della Procura di Palermo, Gaetano Costa (6 agosto 1980), e uno dei suoi più stretti collaboratori, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980); il capo del partito di opposizione, Pio La Torre (30 aprile 1982), segretario del PCI siciliano; il rappresentante del Governo nella Regione Sicilia, prefetto generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982); il capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Rocco Chinnici (29 luglio 1983); il magistrato di Trapani, Giangiacomo Ciaccio Montalto (26 gennaio 1983); il giornalista controcorrente Giuseppe Fava (5 gennaio 1984); il dirigente della squadra mobile di Palermo, Ninni Cassarà (6 agosto 1985).
Questa guerra scatenata dalla mafia contro lo Stato nel quadro della rottura di alcuni equilibri tradizionali fra i soggetti mafiosi non è riuscita a scompaginare e sottomettere le istituzioni democratiche, ma si è scontrata con la crescente capacità di contrasto delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria grazie all’azione intelligente e coraggiosa di alcuni magistrati, tra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che hanno attivato tecniche di indagine più penetranti, inseguendo le tracce del denaro mafioso attraverso i canali bancari, e metodi di lavoro più adeguati, mediante la creazione di un pool di magistrati specializzati nella conoscenza del fenomeno mafioso, in tale azione sostenuti dal nuovo capo dell’ufficio istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto,
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succeduto a Rocco Chinnici. Gli effetti di questa incrementata capacità investigativa si fecero sentire subito. Il 10 febbraio 1986 si aprì a Palermo il primo maxi processo contro Cosa nostra nel quale furono processate più di quattrocento persone imputate di 120 omicidi, traffico di droga, estorsioni e ovviamente di costituzione di associazione mafiosa. Il processo consentì di scoperchiare per la prima volta i segreti della Cupola che governava Cosa nostra e di mettere a nudo la struttura dell’associazione identificandone i capi, fra i quali un ruolo di spicco era svolto da Totò Riina e Bernardo Provenzano, all’epoca latitanti, i quali successivamente saranno catturati e assicurati alla giustizia. Il successo del nuovo metodo di contrasto nasceva dalla capacità di coordinare le informazioni sui fatti di mafia e di formare un patrimonio di conoscenze indispensabile per rendere più penetrante l’azione investigativa.
All’inizio degli anni Novanta Giovanni Falcone, applicato all’ufficio legislativo del Ministero della giustizia, ispirò un’importante riforma della procedura penale e dell’ordinamento giudiziario, attuata con il decreto legge 20 novembre 1991 n.367 (convertito con modificazioni nella legge 20 gennaio 1992 n.8), con la quale venne istituito un nuovo organo, la Direzione nazionale antimafia, che a sua volta coordinava l’attività e lo scambio di informazioni fra le Direzioni distrettuali antimafia. Si tratta di una soluzione geniale che, evitando di concentrare il potere investigativo e giudiziario nella mani di un unico organo (scelta che striderebbe con i principi costituzionali evocando una sorta di giudice speciale), consente di creare uffici investigativi, appunto le Direzioni distrettuali antimafia, che concentrano la conoscenza di tutti i fatti mafiosi del distretto rendendo più efficiente l’azione di contrasto.
Noi dobbiamo essere grati a questi magistrati ed in particolare a quelli delle DDA di Napoli, di Reggio Calabria, di Palermo e di Milano. I primi con la collaborazione continua delle forze dell’ordine hanno sostanzialmente
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disarticolato il pericoloso clan criminale dei Casalesi mediante numerosi arresti degli appartenenti al clan e di pericolosi latitanti che erano i capi dell’associazione, e mediante il sequestro di ingenti patrimoni; mentre i magistrati di Reggio Calabri e Palermo hanno inflitto duri colpi alla ‘Ndrangheta calabrese e alla Mafia siciliana. Ancora i magistrati della DDA di Milano hanno sgominato l’intera struttura della ‘Ndrangheta calabrese che aveva occupato in maniera capillare il territorio lombardo procedendo agli arresti non solo dei vertici e degli associati ai vari clan Barranca, Neri, Zappia, Barbaro ed altri, ma anche nei confronti dei c. d. “colletti bianchi” magistrati, avvocati, medici, politici. Da queste indagini è emersa la circostanza che attraverso la estensione della c. d. “zona grigia” e il riciclaggio del denaro sporco nelle attività economico-finanziarie, i poteri delle mafie si sono estesi su tutto il territorio nazionale.
È emerso, cioè, il nuovo volto della mafia che ha contatti costanti con i colletti bianchi, con imprenditori, e con altri esponenti di primo piano della classe dirigente.
Ricorderò qui soltanto due processi: il primo è quello relativo all’On. Cuffaro ed altri, nel quale è stato accertato un perverso, inimmaginabile rapporto tra esponenti delle forze dell’ordine (carabinieri, finanzieri, poliziotti, vigili), uomini politici, medici di strutture pubbliche e il Servizio Sanitario, imprenditori e pericolosi clan criminali quali quelli di Brancaccio – con al vertice il primario medico Guttadauro – e dei Mandalà. Il processo Cuffaro ha accertato – oltre che il ruolo di talpe al servizio della mafia da parte di esponenti delle forze dell’ordine nell’ambito della stessa Procura della Repubblica di Palermo – l’esistenza di un vero e proprio fatto criminale tra mafia e politica nel quale i politici di vertice garantivano il loro appoggio all’inserimento nelle liste elettorali di soggetti portatori di interessi mafiosi.
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L’operazione “Infinito” ha dimostrato, oltre la capillare occupazione della regione da parte della ‘Ndrangheta mediante 18 locali o cellule territoriali anche il costante contatto con professionisti disposti a muovere le pedine giuste per agevolare gli scopi della organizzazione criminale.
Si è avuta, così, la prova – come è stato accertato in una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione – dell’esistenza della c. d. borghesia mafiosa che va di pari passo con l’imprenditoria criminale.
Sono questi i due nuovi volti della criminalità organizzata, ed è per questo che nelle sentenze della seconda sezione penale della Corte – comprensive delle misure cautelari disposte nei confronti dei colletti bianchi – abbiamo delineato un nuovo indirizzo, affinché sia possibile contestare ad essi il reato di partecipazione all’associazione e non il concorso esterno, eliminando così ogni possibilità di incertezza e di contrasto giurisprudenziale in ordine a tale figura. L’art.416 bis c. p. incrimina chiunque partecipi all’associazione, indipendentemente dalle modalità attraverso le quali entri a far parte dell’organizzazione criminosa.
Infatti, non occorrono atti formali o prove particolari dell’ingresso nell’associazione che può avvenire nei modi più diversi. La mancata legalizzazione – cioè l’atto formale di inserimento nell’ambito dell’organizzazione criminosa – non esclude, pertanto, che il partecipe sia di fatto in essa inserito e contribuisca con il suo comportamento ai fini dell’associazione: questa Corte, infatti, da tempo, ha chiarito che la prova dell’appartenenza, come intraneus, al sodalizio criminoso può essere dato anche attraverso significativi facta concludentia ove siano idonei, senza alcun automatismo probatorio, a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo: ex plurimis SSUU 33748/2005 rv.231670; Cass.5343/2000 riv 215908 (in specie in motivazione); Cass.4976/1997, Accardo.
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Il “prendere parte” al fenomeno associativo implica, quindi, sul piano fattuale, un ruolo dinamico e funzionale in esplicazione del quale l’interessato fornisca uno stabile contributo rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. La suddetta condotta può assumere forme e contributi diversi e variabili proprio perché, per raggiungere i fini propri dell’associazione, occorrono diverse competenze e diverse mansioni ognuna delle quali – svolta da membri diversi – contribuisce, in modo sinergico, al raggiungimento del fine comune.
Per la configurabilità del reato di cui all’art.416 bis c. p. è, pertanto, necessario e sufficiente una adesione all’associazione – anche non formale o rituale – con l’impegno di messa a disposizione attraverso l’esplicazione, perdurante nel tempo, di uno specifico ruolo, dinamico e funzionale, da cui derivi un costante, effettivo e concreto contributo – di qualsiasi forma e contenuto – purché destinato alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione.
Normalmente, anche per la maggiore facilità dell’onere probatorio gravante sull’accusa, l’attenzione si concentra sull’aspetto più cruento dell’associazione mafiosa ossia sui reati fine (estorsioni, usura, omicidi, traffico di stupefacenti ecc… ) che vengono assunti ad indice del fenomeno associativo che sta a monte. Non meno importante, tuttavia, ai fini del raggiungimento degli scopi associativi, è tutta quell’attività che serve all’associazione per infiltrarsi nella società civile dove si presenta con il volto di personaggi insospettabili i quali, avvalendosi di specifiche competenze professionali, avvantaggiano l’associazione fiancheggiandola e favorendola nel rafforzamento del potere economico, nella protezione dei propri membri, nell’allargamento delle conoscenze e dei contatti con altri membri influenti della società civile (c. d. borghesia mafiosa).
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Questi soggetti – siano essi politici, pubblici funzionari, professionisti o imprenditori – devono ritenersi far parte a pieno titolo (come concorrenti intemi) all’associazione mafiosa quando rivestano, nell’ambito della medesima, una precisa e ben definita collocazione, uno specifico e duraturo ruolo – per lo più connesso e strumentale alle funzioni ufficialmente svolte – finalizzato, per la parte di competenza, al soddisfacimento delle esigenze dell’associazione. In questi casi, ove l’attività svolta da questa particolare categoria di soggetti presenti i caratteri della specificità e continuità e sia funzionale agli interessi e alle esigenze dell’associazione alla quale fornisce un efficiente contributo causale, la partecipazione dev’essere equiparata a quella di un intraneus tanto più ove il soggetto, per la sua stabile attività, consegua vantaggi e benefici economici o altre utilità.
E così, risponderà dell’ipotesi prevista dall’art.416 c. p. il soggetto (appartenente alle categorie suddette) che si sia messo a disposizione del sodalizio assumendo, nell’ambito dell’organizzazione, il ruolo stabile di collegamento tra i membri del sodalizio criminale e ambienti istituzionali, politici e imprenditoriali. Trattasi, infatti, di un ruolo non meno rilevante di quello attribuito ad altri partecipi, (dediti ai reati fine di estorsione, usura, riciclaggio ecc. ), anzi ancor più essenziale per la esistenza e il rafforzamento dell’associazione poiché il creare – o comunque favorire ed ampliare – le reti di relazione dei capi dell’associazione con politici, magistrati, imprenditori, personale sanitario, ecc. , permette di moltiplicare la forza di espansione e di penetrazione del sodalizio criminale. Il contributo di questi soggetti della borghesia mafiosa è per l’associazione fonte di potere, relazioni, contatti. Occorre ricordare, in proposito, che le associazioni mafiose sono tali perché hanno relazioni con la società civile; ed, invero, tali relazioni che uniscono i boss con una rete di politici, pubblici amministratori, professionisti,
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imprenditori, uomini delle forze dell’ordine, avvocati e persino magistrati, costituiscono uno dei fattori che rendono forti le associazioni criminali e che spiegano perché lo Stato non sia ancora riuscito a sconfiggerle. Basti pensare che gli infiltrati, “le talpe”, le fughe di notizie riservate e, in casi ancora più gravi, le collusioni di investigatori, inquirenti o magistrati, con le cosche mafiose possono portare al fallimento parziale o totale delle indagini.
Mi sia consentito chiudere questo mio intervento su quello che lo scrittore Nicola Tranfaglia ha definito “la società mafiosizzata” con il ricordo dei due magistrati che più degli altri si batterono con grande coraggio contro il crimine organizzato e in particolare a colui che per primo ideò e progettò la Direzione Nazionale Antimafia e le Direzioni Distrettuali Antimafia.
Giovanni Falcone pagò con la vita la sua sfida alla mafia: morì il 23 maggio 1992 assieme alla moglie, Francesca Morvillo, e a tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di- cillo, quando la mafia fece esplodere una bomba telecomandata al passaggio della sua autovettura. La stessa sorte capitò a Paolo Borsellino: il 19 luglio 1992 un’autobomba esplose, in via D’Amelio a Palermo, uccidendo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, prima donna della polizia di Stato caduta in servizio, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Non c’è dubbio che Falcone, come Borsellino, come Galli, come il generale Dalla Chiesa, come Alessandrini e tanti altri siano degli eroi civili, caduti nella missione di servire la patria, svolgendo le loro funzioni istituzionali nel quadro della legalità democratica per garantire il bene pubblico della convivenza pacifica e della libertà dei cittadini dall’oppressione delle mafie e della violenza di ogni colore. Non eroi perché sono morti ma perché hanno voluto capire e conoscere con ostinazione.