Saverio Lodato 19 Marzo 2023
Ora preoccupa la borghesia mafiosa. Ora la borghesia mafiosa è preoccupata. Magari fosse vero.
Come va incasellata la trentennale latitanza di Matteo Messina Denaro? Mafioso, certo. Capo mafia, certo. Stragista, certo. Malato terminale, certo. Ma, con altrettanta certezza, in ottima compagnia – e alla luce del sole -, di medici di grido, belle signore innamorate, solerti spiccia faccende che per suo conto scodinzolavano fra boutique d’alta moda, e gioiellerie e concessionarie di auto, perché a “don Matteo” non mancassero mai i gadget che fanno, di un feroce criminale, un uomo libero e felice, contento e rispettato.
E’ il lato, consumistico e godereccio, definiamolo così, della sua esistenza. Quello che per ora va tanto per la maggiore in certe televisioni.
Né è da escludere che fosse proprio questo gigantesco e luccicante paravento paesano, in quel di Campobello di Mazara, a rendere invisibile, impalpabile, introvabile il Denaro, per carabinieri e poliziotti che pure, stando alle voci ufficiali dei ministeri, era implacabilmente cercato, braccato, stretto nell’angolo, e con abbondanza di mezzi, commissariati e caserme, magari proprio a dieci passi dai suoi covi. Il che, già, si spiega molto meno.
Concedeteci una piccola parentesi.
C’è un grande racconto di Allan Poe – s’intitola “L’uomo della folla” -, che racconta di una creatura sfuggente e impersonale che doveva la sua imprendibilità al fatto di essere in eterno movimento dentro la sterminata moltitudine di Londra, al punto che nessuno aveva mai il tempo di memorizzarne le fattezze.
Ma – vivaddio -, lui si muoveva in una città gigantesca e labirintica, non in un paesello di diecimila anime, dove tutti sanno tutto di tutti, come Campobello di Mazzara. A proposito, Poe conclude che l’uomo della folla doveva il suo comportamento bizzarro al semplicissimo fatto che “non poteva e non voleva stare da solo”. E’ stato forse questo il bizzarro destino anche di Matteo Messina Denaro? E’ materia sulla quale è meglio non scherzare troppo.
Tornando a noi.
Tutto ciò premesso, non vogliamo togliere un ette al merito investigativo della Procura di Palermo, diretta da Maurizio de Lucia, affiancata da Paolo Guido, alla quale nessuno potrà mai negare l’evidenza: l’hanno cercato, l’hanno trovato, ora Matteo Messina Denaro alloggia nelle patrie galere, dove riceverà le cure che gli spettano. Questo è il lavoro che i magistrati erano chiamati a svolgere, e questo hanno svolto. E invitiamo loro, se ci è consentito, a diffidare di troppe solidarietà pelose che in questi giorni vengono loro da chi, più che alla bontà delle indagini, è interessato a che le indagini non si facciano sino in fondo.
Ma gli interrogativi rimangono. E sono tanti e pesanti. Destinati a rimanere tali, se questo andazzo dovesse continuare, e indipendentemente dal lavoro investigativo della Procura di Palermo.
Lo si evince dal fatto che, in queste ultime settimane i giornali locali dell’Isola Felice – per dirla con lo scrittore Luigi Capuana, convinto com’era che se non fosse stato per le calunnie del Continente la parola mafia non avrebbe mai dovuto avere diritto di cittadinanza a spiegazione delle cose siciliane -, stanno con insistenza iniziando a titolare: “Ora preoccupa la borghesia mafiosa” o il che fa lo stesso, “la borghesia mafiosa è preoccupata”.
Ma l’intuizione sembra spegnersi lì.
C’è un fiume carsico in questi giorni del dopo cattura che complica tutto.
La gente è restia, piaccia o non piaccia, alla versione ufficiale di come sono andate le cose. Come si può darle torto?
L’opinione pubblica sa quello che sa Matteo Messina Denaro.
Sa che “don Matteo” ha posseduto l’agenda rossa di Paolo Borsellino; l’agenda in cui il magistrato nelle sue ultime settimane di vita annotò scoperte e propositi investigativi all’indomani dell’ uccisione di Giovanni Falcone.
Sa che “don Matteo” potrebbe riempire “un calepino così” (un quadernone così) sul perché e il per come delle stragi di Roma, Milano e Firenze, dell’attentato a Roma a Maurizio Costanzo che si salvò per miracolo o a quello dello Stadio Olimpico clamorosamente fallito.
L’opinione pubblica sa che Matteo Messina Denaro sa perché Giovanni Falcone fu ucciso a Capaci piuttosto che a Roma, dove tutto sarebbe stato militarmente molto più semplice.
Infine, l’opinione pubblica sa benissimo che se c’è stato un boss incarnazione della Trattativa Stato- Mafia, questo si chiama Matteo Messina Denaro. Con tutto quello che ne consegue.
Ma per i giornali locali dell’Isola Felice, questa è difficoltà interpretativa difficile da gestire. Sono certezze collettive che mettono paura.
E girano attorno, e dicono e non dicono, e la prendono alla lontana, cercando ingenuamente di troncare e sopire sul nascere.
Ma davvero la vogliamo cercare la borghesia mafiosa?
E dove vogliamo cercarla questa benedetta borghesia mafiosa palermitana? Nei mercati di frutta e verdura? Fra le bancarelle che espongono il pescato del giorno? Nelle mense della Caritas o fra i derelitti di Palermo di cui si occupava Biagio Conte?
Smettiamola di giocare con le parole.
La borghesia mafiosa palermitana andrebbe cercata in tante segreterie politiche; magari in qualche ovattata stanza di Palazzo d’Orleans o di Palazzo dei Normanni; in tanti uffici del gigantesco ventre burocratico che tiene in vita due terzi della città; nella ben oleata macchina che sforna incessantemente eventi culturali spesso tanto inutili quanto lautamente finanziati con il danaro pubblico; in studi medici o in studi notarili o in studi legali… E potremmo continuare per un bel po’.
Ho volutamente lasciato da parte, in quest’elenco, l’Università di Palermo.
Perché l’argomento è assai delicato.
Perché la definizione di “zona grigia” è definizione che irrita i luminari palermitani del diritto, convinti che la giustizia debba tener conto di una griglia ben definita, delimitata dal “bianco” e dal “nero”, e che quindi il “grigio” sia piatto appetitoso solo per giustizialisti e forcaioli, restii al concetto del “perdono”, e magari propensi alle “boiate pazzesche”. Insomma, la “borghesia mafiosa” – sembrano sottintendere – non imbraccia il fucile, e allora perché andare a stuzzicarla?
Però.
Come si fa a tacere di fronte a quanto è accaduto l’altro giorno alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo? Dove, a un gruppo di giovani universitari di quella stessa facoltà – associazione chiamata “Contrariamente” – è venuta la scomoda idea di invitare proprio il giudice Nino Di Matteo, a parlare degli argomenti che abbiamo trattato sin qui, e di tutto quello che ci ruota attorno.
Tema: “Tra riforme e lotta alla mafia: cosa è cambiato dal 1992 all’arresto di Matteo Messina Denaro?”.
Dibattito che a quel che se ne sa – ma per sentito dire, visto che i giornali locali dell’Isola Felice non lo avevano considerato degno di menzione, poi se ne sarebbero accorti – ai ragazzi pare sia piaciuto molto e con l’aggiunta, da parte loro, di interventi e domande al magistrato Di Matteo.
Unica presente, per il corpo docente, la professoressa Daniela Chinnici.
La quale dice: “Il maxi processo è stato un obbrobrio”.
Badate bene: il “maxi” processo del pool di Palermo, quello composto da Antonino Caponnetto, e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La professoressa non si riferiva, infatti, alla “boiata pazzesca”, come il professore Giovanni Fiandaca definì, in una sua indimenticabile intervista al Foglio, il processo sulla trattativa Stato-Mafia.
Infatti la professoressa è andata avanti, a pensiero libero, spiegando agli allievi che “i maxi processi sono congegni eversivi del sistema”. E ricordando, infine, i bei tempi andati della facoltà di Giurisprudenza, quando il suo maestro, il preside del tempo, Giovanni Tranchina – viventi Falcone e Borsellino – se la prese con i maxi processi che “degradavano ad arnese di polizia, dove trovavano posto criminali promossi a collaboratori di giustizia”.
A Di Matteo, fra gli applausi degli studenti, è toccato ricondurre la professoressa sulla strada della buona logica e del buon senso.
Ma lei, quasi a scusarsi, ha detto una frase che ci ha colpito molto: “Non capisco perché questa reazione, quando dico queste cose ai miei studenti ci capiamo”. Già. Si capiscono. Sarà.
Ma sì, la borghesia mafiosa è come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa.
La rubrica di Saverio Lodato
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