È il processo in cui, per la prima volta, è stata riconosciuta a Roma l’esistenza di un’associazione mafiosa.
Adesso, però, una sentenza della Corte d’Appello della Capitale ha ribaltato tutto.
Pene dimezzate. E a Ostia, il cui municipio è stato sciolto per mafia, la mafia non c’è più. O almeno, le famiglie Fasciani e Triassi non ne devono rispondere.
Il rischio, adesso, è che questa sentenza possa avere conseguenze anche su altri processi in corso, a partire da Mafia Capitale
LA PROCURA GENERALE FA RICORSO. I giudici di secondo grado hanno condannato 10 imputati su 18, per associazione a delinquere semplice.
Tra i reati accertati usura, estorsione e intestazione fittizia di beni. Ma niente 416 bis. Assolte otto persone, tra cui Vincenzo e Vito Triassi.
La procura generale, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, ha già fatto sapere che farà ricorso in Cassazione. La stessa Cassazione che il 9 giugno aveva riconosciuto, per quattro prestanome dei Fasciani, l’aggravante del metodo mafioso.
«SIAMO SCONCERTATI». Sono queste le contraddizioni che spiazzano le associazioni antimafia, costituitesi parte civile al processo. A partire dall’associazione Antonino Caponnetto, il cui presidente onorario è il professor Alfredo Galasso, ex deputato, che 30 anni fa era nell’aula bunker dell’Ucciardone per il maxi-processo a Cosa nostra.
«Siamo disorientati e sconcertati», dice Galasso a Lettera43.it. «La sentenza della Corte d’Appello arriva a pochi giorni dal verdetto della Cassazione, che ha condannato in via definitiva quattro affiliati al clan Fasciani. Per loro, che avevano scelto il rito abbreviato, è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa. Per gli altri imputati, invece, i giudici di secondo grado l’hanno cancellata».
Stessa logica di difesa
Allo sgomento fa seguito l’incomprensione, che deriva dalla lettura della sentenza: «C’è qualcosa che non comprendo. Uno degli imputati, il signor Inno, è stato comunque condannato a risarcire i danni e a rimborsare le spese legali sostenute dalle associazioni antimafia. Non capisco perché. Se l’aggravante mafiosa non è stata riconosciuta, perché invece sussiste per questo signore? Non mi è chiaro».
Galasso non nasconde il timore che anche il processo di Mafia Capitale possa risentire di questa sentenza: «In quel dibattimento i difensori degli imputati sostengono le stesse ragioni dei loro colleghi impegnati a Ostia: ‘Non è immaginabile che a Roma e dintorni ci sia la mafia’. Racket sì, usura sì, riciclaggio sì, intestazione fittizia di beni sì, ma tutto all’interno di un’associazione a delinquere di tipo comune».
DUE CLAN SUL TERRITORIO. A mancare, insomma, sarebbe solo la mafia: «Dunque non dovrebbero esserci né intimidazioni, né omertà», prosegue Galasso. «Eppure, a me pare che nel giudizio di primo grado siano emerse chiare evidenze del contrario».
Galasso cita le stesse intercettazioni richiamate dalla procura generale durante la requisitoria, che «dimostrano in modo indiscutibile l’esistenza di due clan mafiosi, che come Cosa nostra e Stidda in Sicilia si spartivano il territorio di Ostia».
IL «PACIERE» ARRIVATO DALLA SICILIA. Eccone un esempio: «Gli inquirenti, a un certo punto dell’inchiesta, hanno avuto il sospetto che alcuni affiliati del clan Fasciani avessero deciso di aggredire, o addirittura di eliminare, gli esponenti di spicco del clan Triassi-Caruana».
Dopo la gambizzazione di Vito Triassi, nel settembre 2007, succede però che dalla Sicilia arriva a Ostia «un capomafia della zona dei Triassi, Francesco D’Agati, a fare da paciere. Si convoca una riunione e si decide che è bene non farsi la guerra reciprocamente, perché altrimenti dalla Sicilia arriveranno i rinforzi e bisognerà confrontarsi anche sul piano militare. E questo non conviene a nessuno, perché a Ostia c’è da mangiare per tutti».
L’associazione Caponnetto, in ogni caso, non intende mollare: «Ci aspettiamo l’impugnazione in Cassazione da parte della procura generale, che ha già preso posizione in modo equilibrato e durissimo sulla vicenda. Anche noi faremo ricorso, come parte civile».
Dal coordinamento romano di Libera, altra associazione che si è costituita parte civile, arrivano commenti dello stesso tenore: «Restiamo in attesa delle motivazioni di una sentenza che ha stravolto il giudizio di primo grado e ridotto drasticamente le pene per gli imputati. Desta preoccupazione il fatto che continui a essere difficile riconoscere come mafia l’attività di clan che a Ostia esercitano il controllo del territorio, con le stesse modalità cha abbiamo imparato a conoscere in altre zone del nostro Paese».
VITTIME DI VIOLENZA SCORAGGIATE. Libera segnala la rilevanza e la drammaticità dei fatti emersi al processo: «Estorsioni, usura, traffico e spaccio di stupefacenti, ferimenti e gambizzazioni tra gli stessi clan».
La procura ha definito quella di Ostia la più militare tra le organizzazioni criminali operanti sul territorio romano. E l’associazione di don Ciotti è preoccupata per il futuro: «L’attenzione su Ostia non deve calare. Anche la vita amministrativa del municipio è stata profondamente segnata, negli ultimi anni, dalla presenza dei clan».
Sentenze come quella della Corte d’Appello, per Libera, «possono scoraggiare le vittime di espisodi di violenza. Le denunce, a Ostia, sono sempre state rare».
«NESSUNA SORPRESA». Se anche la Corte di Cassazione dovesse concludere che a Ostia la mafia non c’è, le conseguenze sarebbero tanto di ordine pratico (pene più lievi per i condannati, un regime carcerario che non prevede il 41 bis), quanto di ordine simbolico.
Verrebbe cioè ribadito quello che il magistrato Otello Lupacchini, che ha personalmente indagato sulle famiglie Fasciani e Triassi, definisce «uno storico orientamento di tutti i livelli della giurisprudenza» nella Capitale, «inaugurato con i processi a carico della Banda della Magliana».
Il paragone coi processi a carico della Banda della Magliana
Anche in quel caso, ricorda Lupacchini, «gli imputati che scelsero il rito abbreviato, giudicati sulla base dei soli atti d’indagine, vennero considerati mafiosi. Mentre per gli imputati che affrontarono il dibattimento, non si pervenne all’accertamento della mafiosità».
La pluralità dei riti giudiziari, spiega Lupacchini, non agevola l’uniformità delle decisioni.
«PREVALE LA TUTELA DELL’IMPUTATO». Inoltre, il processo «tende a un risultato che non coincide con la verità storica. Nel nostro ordinamento, per scelta politica, prevale la tutela dei diritti dell’imputato, anche quando ci sono elementi non vessatori che lo qualificano come reo».
A Roma, poi, è dal 2002 che le vicende giudiziarie sul crimine organizzato ripropongono lo stesso schema, con notevoli differenze tra sentenze di rito abbreviato e sentenze di rito ordinario: «I processi si arenano sulla qualificazione giuridica del fatto. Non mi sorprenderebbe se succedesse la stessa cosa nell’ambito di Mafia Capitale».
IL CONCETTO SCIVOLOSO DI AMBIENTE. Un secondo paragone con i processi a carico della Banda della Magliana è illuminante: «All’epoca, le sentenze che conclusero per la non mafiosità degli imputati misero in evidenza il concetto di ambiente. Roma sarebbe un ambiente non permeato dall’omertà, dunque la mafia non esisterebbe. L’omertà, però, facilmente percepibile in un piccolo paese di poche migliaia di abitanti, diventa un elemento utopico da dimostrare, in una metropoli con cinque milioni di abitanti».
In conclusione, per Lupacchini, delle due l’una: «In questa materia il peso dei precedenti è mostruoso. O succede un fatto nuovo, incontrovertibile, che non offra la possibilità di interpretazioni restrittive dell’articolo 416 bis, oppure il rischio è che a Roma si continuerà a dire che la mafia non esiste». Nonostante l’inchiesta Mafia Capitale.
Twitter @davidegangale