La Procura Generale ricorre in Cassazione contro l’assoluzione di Adolfo Greco
Rosaria Federico
15 Novembre 2024 – 20:5
Napoli. “Greco non risulta svolgere un ruolo borderline ma è assolutamente coerente e fedele agli interessi delle compagini mafiose”. E’ questo uno dei passaggi chiave del ricorso del sostituto procuratore generale di Napoli, Luigi Musto, contro la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di Appello di Napoli il 3 giugno 2024 nei confronti di Adolfo Greco, 74enne imprenditore stabiese, ed esponenti dei clan D’Alessandro e Afeltra.
Il pm ha promosso un ricorso per cassazione contro la sentenza di assoluzione ‘perché il fatto non sussiste’ per Greco e per Michele e Raffaele Carolei, ritenuti esponenti del clan D’Alessandro, e Cuomo Umberto, referente del clan Afeltra di Pimonte-Gragnano.
Due episodi distinti di estorsione avvenuti nel 2015 valsero ai quattro imputati pene pesantissime in primo grado (otto anni di reclusione a Greco, sei anni e tre mesi a Michele Carolei, sei anni e due mesi a Raffaele Carolei e sei anni e sei mesi a Cuomo).
Una sentenza ribaltata in appello con un’assoluzione piena che il sostituto procuratore generale Musto ha deciso di impugnare dinanzi alla Corte di Cassazione. Motivo principale del ricorso è che ‘la decisione della Corte d’Appello è sprovvista di un percorso argomentativi delle ragioni che hanno portato all’assoluzione. La Corte d’appello ha disatteso il dovere di motivazione rafforzata’ che si applica quando si ribalta una decisione.
Il pm ritiene che i giudici dell’appello avrebbero dovuto dimostrare perché le prove emerse durante il processo siano state valutate in modo completamente diverse rispetto al primo grado. I giudici dell’appello hanno valutato – secondo quanto scritto nel ricorso – le prove testimoniali e le argomentazioni difensive in maniera ‘assertiva’.
L’accusa ripercorre il processo e le prove emerse in primo grado sia per l’estorsione ai danni di Giovanni Irollo, contestata a Greco e ai Carolei, Michele e Raffaele, che per quella ai danni di Giuseppe Imperati della quale è accusato Greco e Cuomo, quest’ultimo riferimento del clan Afeltra.
“Greco è da considerarsi anello di congiunzione delle consorterie criminali”
Nelle argomentazioni dell’accusa, vi sono le prove – intercettazioni e testimonianze – dei legami di Adolfo Greco con gli esponenti dei due clan. “Greco è da considerarsi anello di congiunzione delle consorterie criminali ed il territorio, poiché, come emerge dall’insieme del materiale probatorio posto a sostegno della sentenza di condanna pronunciata dal tribunale di Torre Annunziata, egli riveste la funzione di longa manus delle associazioni camorristiche che a lui si rivolgono per veicolare e rafforzare le proprie richieste estorsive”.
Secondo il pm le intercettazioni telefoniche e ambientali non lasciano spazio ad altre interpretazioni, come invece hanno sostenuto i giudici dell’Appello che non hanno neppure provato a spiegarle in modo alternativo e si sono ‘limitati a dire di non condividere l’interpretazione del Tribunale’ scrive il pm.
Altro elemento contestabile sottolineato dalla Procura generale è quello che riguarda la tesi difensiva di Greco: Greco non è né intimidito dal gruppo Carolei e neppure preoccupato per le conseguenze in cui la vittima Irollo sarebbe potuto incorrere se non avesse ‘onoroato’ gli impegni con il clan. “Greco – scrive il pm – nella sua logica di imprenditore ‘colluso’ con la camorra non concepisce assolutamente che si possa non assecondare una richiesta proveniente dal clan’.
L’imprenditore del latte – con interessi milionari anche in attività immobiliari – avrebbe avuto lo stesso atteggiamento e modus operandi con il clan Afeltra di Pimonte-Gragnano attraverso Umberto Cuomo, portavoce del boss Francesco Afeltra. Greco si sarebbe adoperato per reperire risorse finanziare per consentire ad un’impresa legata al clan di realizzare dei loculi presso il cimitero di Santa Maria la Carità.
Un quadro a tinte fosche che i giudici dell’Appello non hanno proprio tenuto in considerazione, limitandosi a sostenere di non condividere la decisione dei giudici di primo grado.
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