L’allarme dell’Antimafia sulla ‘Ndrangheta in Lombardia: “E’ diventata un moderno franchising criminale”
13 Ottobre 2017
di Andrea Sparaciari
«Un comune al servizio dei clan». Così i magistrati della Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Milano e della procura di Monza avevano commentato l’ennesima inchiesta su appalti e ‘Ndrangheta in Lombardia. L’indagine era quella che ha azzerato il comune di Seregno il 26 settembre scorso, quando finirono in carcere il sindaco, Edoardo Mazza, diversi assessori, tecnici dell’amministrazione, imprenditori e giovanissimi boss di origine calabrese. Al di là dell’inchiesta in sé, a colpire furono le parole del pm Alessandra Dolci: «La mafia non è silente. Non lo è al Sud e nemmeno al Nord. È così poco silente che nella piazza centrale di Cantù ci sono pestaggi, violenze e soprusi della ‘Ndrangheta senza alcun ritegno».
Il riferimento era ai comportamenti del giovane boss Giuseppe Morabito (figlio di Domenico e nipote di Giuseppe, detto “u Tiradrittu”), che con i compari Rocco Depretis, Bruno Staiti ed Emanuele Zuccarello – tutti giovanissimi appartenenti alla “locale” (cioè al clan ‘ndranghetista) di Mariano Comense – per anni ha imperversato nel territorio di Cantù.
A dimostrazione che non solo la Lombardia è terra di ‘Ndrangheta seconda solo alla Calabria, ma che ormai non è neanche più una presenza occulta. A Cantù, tutti conoscevano “i Calabresi”, tutti sapevano cosa facevano per vivere, nessuno poteva ignorare i piccoli boss che si comportavano come quelli di San Luca (Rc). Nessuno però ha mai denunciato. A Seregno in migliaia hanno votato un sindaco che si era fatto campagna elettorale nella panetteria Tripodi, di Antonino Tripodi, arrestato nel 2010 e condannato per l’arsenale di armi dei clan che custodiva nel suo garage (in quel bar sedeva anche l’ex presidente della Regione Lombardia, Mario Mantovani).
Da anni ormai i magistrati della DDA di Milano, guidati da Ilda Boccassini, lanciano l’allarme, ma ancora la società civile del ricco Nord appare sorda, se non connivente. Si legge nella “Relazione della DIA sulle attività e i risultati del 2°semestre 2016”: tra le condizioni «di contesto che hanno consentito il radicamento della ‘ndrangheta in Lombardia vi è la disponibilità del mondo imprenditoriale, politico e delle professioni a entrare in rapporti di reciproca convenienza con il sodalizio mafioso».
In quelle pagine gli investigatori raccontano come «gli interessi delle cosche sul territorio si sono stratificati nel tempo, rivolgendosi all’edilizia, alla ristorazione e alla gestione di locali notturni, attività, tra le altre, che, unitamente al traffico di stupefacenti, hanno permesso alla ‘Ndrangheta di consolidare viepiù l’azione di infiltrazione ed il processo di radicamento nel tessuto sociale, istituzionale ed economico, spesso attraverso la compiacenza, il sostegno reciproco e, non ultimo, l’assoggettamento di soggetti appartenenti alle istituzioni e al mondo imprenditoriale».
Pagine che raccontano di come centinaia di cellule cancerose stiano attaccando l’economia del Nord Ovest. Incessantemente. Un’infezione che gli inquirenti tentano di bloccare, ma senza trovare appoggio nelle vittime, le quali spesso preferiscono unirsi agli ‘ndranghetisti – un abbraccio che si rivela sempre mortale – piuttosto che denunciare.
A riprova del costante impegno degli investigatori, basta guardare le inchieste si ‘Ndrangheta portate avanti nella sola Lombardia nel 2016: “Reghion”, “Six Towns”, “Rent”, “Nexum”, “Lex” e “Underground”.
Indagini che hanno colpito duro, spesso partendo dai patrimoni, tanto che la Lombardia è la quinta regione italiana per beni confiscati alla criminalità. I dati sono contenuti nel “Bilancio Sociale del Tribunale di Milano 2016”, dove si legge: «Secondo il Ministero della Giustizia, alla data del 30 settembre 2015, in Lombardia risultano 55.897 beni confiscati al crimine organizzato, di cui 22.953 confiscati definitivamente (9.013 immobili e 1.328 aziende), per un valore stimato al 30 settembre 2013, pari a 859.508.000 Euro». E ancora: «da luglio 2015 a giugno 2016 sono stati sottoposti a sequestro beni mobili ed immobili per un valore complessivo di Euro 24.335.496, mentre risultano colpiti da provvedimento di confisca di primo grado beni per un valore di Euro 19.975.782. Nel precedente anno giudiziario si sono sequestrati beni per un valore pari a Euro 106.941.272 e confiscati beni per Euro 12.645.478. Nell’anno 2013-14 i sequestri ammontano a Euro 11.270.624 e le confische a Euro 22.720.000».
Risultati enormi, ma comunque insufficienti considerata la forza del nemico da combattere: secondo le risultanze processuali – sentenze che hanno passato il terzo grado di giudizio – , oggi in Lombardia sono attive 18 Locali: a “Bollate, Cormano, Milano, Pavia, Corsico, Mariano Comense, Seregno-Giussano, Desio, Rho, Pioltello, Legnano, Erba, Bresso, Limbiate, Canzo e Solaro, Cermenate, Calolziocorte e Fino Mornasco», scrive la DDA.
Ma qui si parla solo di “cosa giudicata” – fondamentale a questo proposito la pronuncia della Cassazione del 6 giugno 2014 sul procedimento “Infinito”, che nel 2010 portò in carcere 300 tra boss e affiliati, 160 solo in Lombardia e che squarciò definitamente il velo sulla ‘Ndrangheta del Nord – ,in realtà, le Locali lombarde sono molte di più.
La lista delle famiglie della sola provincia di Milano – assolutamente non esaustiva – annovera: i Barbaro-Papalia (Corsico, Buccinasco, Trezzano S.N., Rozzano, Assago, Settimo M.); i Mancuso (Monza, Seregno, Carate Brianza); i Coco-Trovato (Lentate sul Seveso, Cormano, Bresso); gli Iamonte-Moscato (Desio); gli Arena, Nicolosi, Paparo (Cologno, Cernusco S.N., Bresso, Gorgonzola, Segrate); i Novella, Gallace, Mandalari (Rho, Pero, Bollate); i Mangeruca (Cornaredo); i Valle, Imerti-Condello (Bareggio, Cisliano); i Pangallo (Motta Visconti); gli Sgambellone e i Callipari (Castano Primo, Cuggiono, Inverno); i Rispoli, i Farao e i Marincola (Legnano); i Nirta (San Colombano a.L.); i Facchineri (Lacchiarella).
Ma altre Locali sono testimoniate a Canzo, Mariano Comense, Erba, Pavia (Pizzata, Neri, Mazzaferro), Cremona (Piromalli, Grande Aracri, Ferrazzo); Sondrio (Bellocco); Lecco (Coco-Trovato, De stefano); Como (De Stefano), Varese (Morabito, Falzea); Brescia (Facchineri, Bellocco), Bergamo (Facchineri, Bellocco, Mazzaferro); Lodi (Agresta, Garreffa).
Un elenco sterminato, frutto di una penetrazione iniziata nei primi anni ’50. Quando parliamo di ‘ndrine lombarde, si deve avere chiaro che a ogni Locale del Nord, corrisponde un proprio omologo clan in Calabria dal quale deriva con analoga struttura.
A raccontare come le famiglie si siano prima radicate, poi strutturate e infine abbiano trovato un proprio equilibrio con la “casa madre” calabrese, sono i magistrati nelle oltre 1.000 pagine dell’indagine su Seregno.
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I clan in Lombardia
Il fenomeno inizia con un primordiale insediamento nel territorio comasco di cellule provenienti da Giffone (RC).All’inizio sono picciotti che si trasferivano temporaneamente al Nord in estate per fare poi ritorno in Calabria a fine stagione, poi gli insediamenti si fanno continuativi. Da quel momento fino a metà anni ’70 il processo di colonizzazione sarà irrefrenabile.
Un anno di snodo è il 1976, quando il “Crimine di Polsi” – il consiglio dei boss calabresi che si riunisce ogni anno presso l’omonimo santuario di San Luca (Reggio Calabria), doveleggenda vuole sia nata la ‘Ndrangheta -, per mettere ordine, impone la creazione della “Camera di Passaggio”, organo dotato di gerarchia interna (Il Capo, Il Contabile, Il Maestro Generale) col compito di sovraintendere alla nascita di nuove “locali” e al loro eventuale accreditamento in Calabria. A gestirla sono Raffaele Iaconis (il Capo), Bruno Iaria (il Contabile), Pasquale Zuccalà (Il Maestro Generale). Il 1976 è importante perché è anche l’anno del riconoscimento ufficiale da parte della Calabria della prima Locale di Milano.
Tutto procede liscio fio alla fine degli anni ’80, quando uno dei capi più potenti del Nord, Giuseppe Mazzaferro, boss di Cornaredo, inizia a farsi portatore di istanze indipendentistiche dalla Calabria. È lui che per primo riesce a federare quasi tutte le Locali lombarde, sottoponendole alla “Camera di Controllo”. A differenza della “Camera di Passaggio” (nel mondo ‘ndranghetista le parole contano), quella di Controllo era sovraordinata alle singole locali,dispensava “le doti” (dava i gradi agli affiliati) e autorizzava nuove locali, ma non rispondeva alla Calabria.
Ne facevano parte le Locali di Milano, Monza, Como, Varese, Appiano Gentile, Cermenate, Fino Mornasco, Mariano Comense, Senna Comasco, Varedo, Seregno, Calolziocorte e Lumezzane. In tutto oltre 300 picciotti che improvvisamentesmettono di riconoscere obbedienza cieca a Polsi. Le regoleda osservare erano comuque le medesime: «omertà, gerarchia delle doti, obbedienza e dipendenza a una struttura sovraordinata che governava le singole Locali, ricompensando le “Virtù” (omertà e solidarietà), conferendo “cariche” e “doti” più elevate», si legge nelle carte dei magistrati.
Mazzaferro non riuscirà a portare a termine il suo progetto autonomista, finirà infatti in carcere il 15 giugno 1994, insieme ad altre 370 persone sparse tra Milano, Brescia, Como, Varese, in quella che è stata la prima indagine contro la ‘Ndrangheta nel Nord: l’inchiesta “I Fiori della notte di San Vito”.
In manette finiscono picciotti e boss, ma anche insospettabili: primari ospedalieri, infermieri, poliziotti, carabinieri e guardie carcerarie. Un’inchiesta storica, perché ha il merito di aver sancito per la prima volta a livello giudiziario che quella sgominata era: «un’associazione di tipo mafioso in quanto diretta emanazione della ‘Ndrangheta calabrese e finalizzata a commettere delitti, in particolare commercio si sostanze stupefacenti, traffico di armi, rapine, estorsioni ed omicidi; associazione per altro autonomamente organizzata in Lombardia mediante la formazione di un clan regionale avente funzione direttiva rispetto a strutture sottordinate, le “Locali”».
I giornali ne parlarono molto, ma l’allarme sociale fu relativo, nonostante i pentiti avessero raccontato che in Lombardia erano presenti sia membri attivi dei clan, dediti «alla commissione di delitti, sia i “Tranquilli” (gli incensurati, ndr) a disposizione dell’organizzazione per nascondere armi, droga, latitanti, o intestarsi fittiziamente beni».
Si trattava ancora di una ‘Ndrangheta “acerba”, dedita al malaffare tradizionale, infatti nelle patrie galere non finiscano politici o amministratori locali. L’infiltrazione negli appalti pubblici grazie all’alleanza con la politica e gli affari è ancora in là da venire. Come invece si scoprirà sistematicamente nelle inchieste successive. Manca ancora il cosiddetto “Capitale sociale” delle ‘ndrine, imprenditori, professionisti, pubblici funzionari che rappresenta oggi il principale asset per il successo dei clan, come l’inchiesta di Seregno ha dimostrato.
L’istanza autonomista di Mazzaferro sarà comunque fatta propria da un altro potentissimo boss, Carmelo Novella,determinato a rompere definitivamente con la Calabria. Un afflato indipendentista che non poteva piacere a “quelli di giù”, che infatti per tutti gli anni ’90 e i primi anni 2000 «avallavano la differenza di peso delle “doti” degli affiliati calabresi rispetto a quelle di cui venivano investiti i lombardi e si mostravano restii a estendere le più importanti cariche ai rispettivi omologhi nell’Italia settentrionale», scrivono i magistrati.
Ma un ventennio di conflitto sotterraneo sull’asse Calabria-Lombardia non poteva essere tollerato, perché il conflitto danneggia gli “affari”. E così nel 1998 viene organizzato un summit in Aspromonte, durante il quale si sancisce la riunificazione tra Nord e Sud: «l’unificazione vera e propria è avvenuta quando si sono unificati tutti i “Locali” e con la cosa, la direzione della Lombardia, compare. Perché se non c’era l’accordo con la Lombardia, non c’era neanche l’unificazione in Calabria», dirà intercettato l’ndranghetista Pasquale Errante a Filiberto Maisano il 5 settembre 1998.
Il progetto autonomista naufragherà definitivamente il 14 luglio 2008 quando Novella sarà ucciso in un bar di San Vittore Olona da due sicari della famiglia dei Gallace.
È da questi presupposti che nasce “La Lombardia”, l’organo di coordinamento collegato direttamente con la Calabriache riunisce le Locali del Nord in «una struttura federale a livello regionale, la quale a sua volta risponde all’organismo di vertice calabrese denominato “Crimine” o “Provincia”», che prende il posto delle varie Camere di Passaggio e quella di Controllo.
I magistrati la descrivono come un: «ente autonomo nel territorio lombardo, a vocazione territoriale e federativa, rappresentativo degli interessi criminale calabresi e composto da singole “Locali” dislocate nell’intera regione lombarda verso le quali esercita un’azione di organizzazione e coordinamento, risoluzione dei conflitti e altresì – fatto più che decisivo – ne assume la rappresentanza nei rapporti con la Calabria».
A capo della “Lombardia” naturalmente si sono succeduti i boss più importanti: Cosimo Barranca(fino al 15/08/2007), Carmelo Novella (dal 15/08/2007 al 14/07/2008, data della morte per omicidio), Pasquale Zappia (dal 31/08/2009).
La ‘Ndrangheta oggi
Dopo l’assassinio di Novella, tutti sentono il bisogno di darsi regole chiare. A elaborarle è, naturalmente, la Calabria, mentre a spiegarle a tutti i capi delle Locali lombarde è il boss di Pavia, Pino Neri, durante il famoso summit del 31 ottobre 2009 nel centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano(in Lombardia, da quando ci sono indagini sulla ‘Ndrangheta, si sono registrati 13 summit a livello di “Lombardia” e 28 summit di “locali”).
Quello al quale riescono ad assistere in diretta audio e video i carabinieri non è una semplice “mangiata” (così si chiamano le adunanze dei boss). È la firma dell’armistizio tra Nord e Sud. Il patto di sangue che segna la nascita della ‘Ndrangheta così come abbiamo imparato a conoscerla. Alla riunione partecipano tutte le Locali, due elementi per ogni clan. A organizzarla è Vincenzo Mandalari, il quale tiene molto alla segretezza, tanto che nemmeno i partecipanti devono sapere luogo e orario dell’incontro. Infatti impartisce ordini chiari: «Noi l’appuntamento lo diamo a tutti quanti alle Giraffe, (il cinema multisala, ndr) perché poi noi sappiamo come funziona, tutti si mettono al telefono… Invece gli diciamo vai alle Giraffe, davanti all’entrata principale, aspetta là che qualcuno arriva (…) Quindi noi prendiamo a uno che va, una volta con una macchina, una volta con un’altra, (…) gli diciamo lasciate la macchina qua, i telefonini lasciateli qua spenti, lasciateli in macchina e venite con me».
Alla tavolata siedono tutti quelli che contano: Arturo Baldassarre, Giuseppe Neri, Vincenzo Mandalari, Rocco Ascone, Francesco Muià e Salvatore De Marco (Locale di Bollate); Pasquale Saracina e Leonardo Saracina (Milano); Pietro Panetta, Cosimo Magnoli, Giuffrido Tagliavia, Nicola Lucà e Salvatore Ferraro (Cormano); Antionio Lamarmore (Limbiate); Alessandro Manno (Pioltello); Giuseppe Moscato e Candeloro Pio (Desio); Giovanni Ficarra (Solaro); Pasquale Zappia e Domenico Commisso (Corsico); Salvatore Muscatello detto “U vecchiu” (Mariano Comense); Luigi Vona e Giuseppe Furci (Canzo), Fortunato Calabrò e Giovanni Vitalone (Limbiate).
Pino Neri, l’emissario salito al Nord per dettare le condizioni, prende la parola e racconta di aver partecipato a una riunione “giù” durante la quale si attribuivano le “cariche” e che i presenti dicevano di avere problemi non solo in Lombardia, ma anche in Calabria, a causa della diffusa deviazione dalle regole nella “concessione di doti e nella creazione di Locali”, non oggetto di approvazione della “casa madre”. Mette in chiaro, cioè, che quanto è stato deciso in Calabria, vale per la Lombardia, ma vale anche per tutte Locali del resto del mondo.
Queste le decisioni prese:
- 1) si sorvola su quanto successo in passato, ma si stabiliscono patti, regole e prescrizioni chiari per il futuro;
- 2) Ogni dote, carica e nuova locale da quel momento avrebbe dovuto sempre essere avallata dalla Calabria,l’unica in grado di conferire legittimazione;
- 3) Si garantisce l’autonomia di ciascuna Locale, ma tutte sono responsabili verso l’organo chiamato “Lombardia”;
- 4) Si sancisce l’investitura di un Gran Maestro che si facesse garante delle Locali lombarde e tramite dei rapporti con la Calabria (nell’occasione sarà eletto Pasquale Zappia, boss di Corsico).
- 5) Che per un anno non ci sarebbero state né doti né sarebbero nate nuove Locali.
Le cosche lombarde, un franchising che funziona
Così è nata la moderna ‘Ndrangheta lombarda. Per comprenderne la modalità di azione, si deve pensare a un’anarchia organizzata, «dove ognuna Locale è pienamente dotata di autonomia decisionale per quanto riguarda gli affari, essa però appartiene a un’organizzazione federale che agisce in rete, priva di un un carattere gerarchico-verticistico. È un arcipelago con una sua organizzazione coordinata e organi che hanno stabilità e regole specifiche», scrivono gli inquirenti. È questa la grande differenza con la mafia siciliana: non esiste un grande capo, le decisioni sono collegiali, sempre però all’interno delle regole stabilite in Calabria.
In Lombardia il “Crimine” o “Provincia” non interviene negli “affari”, ma ha un ruolo decisivo sul piano organizzativo,essendo «garante delle regole basilari dell’organizzazione, quelle che caratterizzano la ‘Ndrangheta in quanto tale, anche fuori dai confini calabresi. Inoltre il Crimine o Provincia nomina i capi delle Locali, sovraintende alla nascita di nuove Locali, conferisce le cariche, risolve le controversie», si legge nelle carte di Seregno.
Per capire un tale universo, l’esempio più calzante – sostenuto dagli stessi inquirenti – è quello del franchising: ogni Locale e la Lombardia possono agire autonomamente nel progetto criminoso, «fermo restando però il riconoscimento del rapporto di filiazione con la madrepatria che si esprime con l’emanazione da parte della Calabria di regole la cui osservanza è condizione necessaria perché la struttura lombarda mantenga la propria “legittimità ‘ndranghetista”».
In pratica, «la Calabria è titolare del marchio ‘Ndrangheta, completo del suo bagaglio di arcaiche usanze e tradizioni, mescolate a fortissime spinte verso più moderni e ambiziosi progetti di infiltrazione nella vita economica, amministrativa e politica, la quale nel tempo non solo ha autorizzato, ma incoraggiato l’esportazione di tale marchio oltre i confini regionali e anche nazionali, ma sempre riaffermando l’esigenza che le filiazioni esterne rispondano a determinati standard in assenza dei quali cessa il conoscimento da parte della casamadre e la possibilità di fregiarsi del marchio».