L’Espresso, 04 ottobre 2018
Nella Terra dei fuochi si continua a morire. Nonostante la beffa delle bonifiche
Per ripulire il territorio in Campania, è arrivato più di un miliardo. Ma i roghi tossici non si fermano. Tre milioni di persone sono esposte a gravi rischi per la salute. Tecnici e ambientalisti denunciano le varie passerelle dei politici. «E anche i 5 Stelle hanno tradito le promesse ai comitati»
DI FRANCESCA SIRONI
04 ottobre 2018
È l’inferno perfetto: perché non si vede. Ci sono campi di spighe all’apparenza intatte, fossi d’erba scura, uno sterrato che porta a una masseria del ’700 . È perfetto, quest’angolo d’Ade. Se non che a respirare filtra dal terreno un odore dolciastro che prende allo stomaco – e fa sputare. Sotto questi prati sono state sversate infatti centinaia di migliaia di batterie. Una transenna coperta dai rovi segnala “pericolo” così come un pozzo chiuso da un lucchetto – anche se l’acqua al veleno viene comunque usata nei campi abusivi. Siamo a Cava Monti a Maddaloni, in provincia di Caserta. Un esempio perfetto dell’impasse in cui si trova la questione Terra dei fuochi in questo momento. «Qui la magistratura è arrivata, ha accertato, questa storia è stata portata in Parlamento. E poi? Nulla», indica con rabbia e dolore Enzo Tosti, storico attivista per l’ambiente in Campania: «La politica è assente. Di chi è la responsabilità? Della Regione? Del Comune? Probabilmente sì. Ma allora, che si fa?». Che si fa? Contenere, ripulire, Cava Monti è fra i progetti inseriti in un accordo da 160 milioni di euro, soldi pubblici, un ennesimo piano che prevede interventi a Bagnoli e operazioni di “risanamento” affidate a Invitalia, che prometteva a riguardo: «Il 2018 sarà l’anno delle bonifiche».
Per ora alla discarica delle batterie sepolte senza controlli il tempo passa immobile, nonostante «il problema fosse stato sollevato già vent’anni fa», raccontava ancora nel 2015 un dirigente dell’Agenzia regionale per l’Ambiente ai deputati della commissione d’inchiesta sui rifiuti: «Poi era stato accantonato; siamo stati a eseguire delle misure. Abbiamo fatto riunioni, tavoli tecnici, eccetera. Abbiamo preparato anche un piano, però non ci sono finanziamenti e non si sa cosa fare: su Cava Monti ancora non si è deciso nulla di definitivo».
I finanziamenti nel frattempo sono arrivati, però. E parecchi. Fra fondi europei, contributi di Stato e stanziamenti regionali, la Campania ha avuto a disposizione, abbiamo ricostruito, oltre un miliardo di euro per ripulire le zone inquinate dagli sversamenti di rifiuti, soprattutto industriali, scarti ammassati di filiere che lavorano spesso in nero: scampoli tessili, materiali da costruzione, chimica tossica. La somma complessiva della mole di denaro messa sul tavolo è talmente difficile da calcolare con esattezza che il ministero dell’Ambiente, racconta il consigliere regionale Vincenzo Viglione, ha convocato un tavolo tecnico con la giunta per verificare l’entità effettiva dei soldi spesi e di quelli ancora disponibili.
Ma il problema non è tanto il portafoglio, quanto la spesa rispetto ai risultati. Minimi. Soprattutto nella certezza che ogni bonifica rimandata è oggi – e se non oggi di certo domani – una minaccia gravissima e costante alla salute dei residenti. «La Terra dei fuochi è diventata una grande occasione di speculazione politica. Una passerella su cui si affacciano tutti: prima Matteo Renzi e Vincenzo De Luca, con le loro promesse. Ora anche il governo gialloverde», commenta Raniero Madonna, giovane ingegnere ambientale che nel 2013 contribuì a portare a Napoli migliaia di cittadini dietro lo striscione “Stop biocidio”: «Il Movimento 5 Stelle sta tradendo le aspettative dei comitati, qui come a Taranto». L’esempio? «Ai primi di luglio hanno presentato il “decreto Terra dei fuochi”. Si tratta in realtà di una riorganizzazione delle competenze del ministero. Chiamarlo così è uno spot politico che mortifica il dolore di questa gente».
La promessa elettorale del governatore De Luca aveva e ha la sagoma colossale delle cinque milioni e mezzo di tonnellate di ecoballe ammassate sotto immensi teli neri a Giugliano, a Villa Literno e in altri piccoli comuni. Rifiuti dei rifiuti, un monumento alla monnezza che si estende per chilometri su terreni che sono costati a oggi 24 milioni di euro solo d’affitto, con ovvi interessi dei clan.
L’ex ministro Gian Luca Galletti, annunciando “Ecoballe, addio!” tre anni fa, mise sul piatto 450 milioni di euro per smaltire quel peso, 150 stanziati per decreto nel 2015. A questo gruzzolo si sono aggiunte altre centinaia di milioni, in parte con la Finanziaria del 2016, in parte con fondi europei stornati apposta da altri obiettivi per alimentare quest’unica missione. Insomma, una cassaforte. Risultato? L’ultimo report della “struttura di missione per lo smaltimento dei Rsb (l’acronimo burocratico che identifica i “rifiuti stoccati in balle”), aggiornato al 5 luglio 2018, è a dir poco demoralizzante: su 880 mila tonnellate messe a bando, ne sono state rimosse solo 140 mila e 537. Di questo passo ci vorrà un secolo per inaugurare la pulizia promessa, mentre gli stessi stock vengono traslati altrove in Italia (pochi sono finiti in Portogallo). Vicino alle ecoballe, a Giugliano, s’alza un altro mausoleo all’inquinamento, tappa obbligata del triste “toxic tour” di questa terra fragile: la Resit, una discarica che da decenni fa filtrare sostanze tossiche nel suolo.
I primi atti amministrativi sono del 2008. I soldi per recintare i veleni ci sono. La gestione viene affidata a Sogesid, società in house del ministero dell’Ambiente. Che s’incastra presto. Analisi a rilento, ricorsi, indagini giudiziarie, lavori che procedono a fatica. Insieme al paradossale dettaglio per cui la gestione del percolato – il liquido causato dai rifiuti – non rientrava nella gara. Per cui adesso nessuno sa come metterci mano. In provincia di Caserta simile sorte illogica, almeno a vederla da fuori, descrive luoghi come “Lo Uttaro”, un’area industriale di cui l’ex sindaco Pio Del Gaudio, di fronte a una relazione ambientale che definiva cogenti i divieti di utilizzare l’acqua, per la falda contaminata, dichiarava: «Non c’è alcun allarme ambientale». Era il 2014. Nel frattempo si sono sommati piani, carotaggi, controlli, allarmi, quasi un milione speso in progetti solo da Sogesid. Azioni concrete di bonifica della zona? Missing. E altri rivoli di fondi, europei e non, si sono persi nel frattempo in antologie burocratiche. O in smaccati sprechi. Come è stato per gli almeno sette milioni di euro spesi per la “videosorveglianza anti-roghi” da decine di comuni. Su uno spiazzo di cemento in periferia di Orta di Atella, in quella che fu Terra di Lavoro, una bella telecamera nuova nuova si alza sopra mucchi di scarti industriali e urbani appena incendiati. Il sistema, spiega la Polizia, non comunica infatti con la centrale. Quindi gli agenti della Municipale, se vogliono vedere le immagini (che si cancellano ogni 7 giorni), devono mettersi in auto sotto il palo e per «ore e ore», con un tablet, scaricare i file. Risultato: una fatica inutile.
Certo, in questi anni alcune bonifiche sono state fatte. Grazie a 250 milioni stanziati da Bruxelles nel 2013, ad esempio, 39 discariche pubbliche abusive sono state rese innocue. Su 120, però: ne restano 81 da sistemare, oltre a 26 private. E ancora: 15,5 milioni di euro sono stati affidati a un grande studio che si spera definitivo, messo nelle mani dell’Istituto Zooprofilattico e di un gruppo di agguerriti ricercatori indipendenti. Dovrebbe dare risultati importanti sui pozzi (mai censiti completamente fino ad ora) e sui marcatori di veleni nel sangue di 4.200 persone sane. Per ora, alcuni risultati pubblicati hanno rassicurato gli agricoltori sulla bontà dei loro frutti. Con l’entusiasmo – scritto per decreto – della Regione Campania, per la quale il progetto aveva permesso alle imprese di «contrastare con dati scientifici la campagna denigratoria nei loro confronti».
Orientare i numerosi e confliggenti “dati scientifici” di questa zona martoriata dai veleni e dal silenzio è facile. Dopo gli anni dove tutto era “emergenza”, dopo anni di studi su studi usati per contrapporre analisi di un’emergenza ambientale diffusa che è sempre rimasta tale, ora la parola d’ordine sembra diventata: normalizzare. Ridimensionare. Spegnere almeno i fuochi mediatici. Il dirigente dell’Asl 2 di Napoli Antonio D’Amore sta avviando ad esempio una campagna d’informazione per gli screening oncologici, un’iniziativa meritevole in una zona che non ha accesso, e abitudine, a una buona sanità. Ha sul tavolo i manifesti pronti. Ma li vuole far ristampare. Perché c’è scritto “Terra dei fuochi” sotto il logo e questo lemma «non lo voglio proprio più vedere», dice. I registri dei tumori vengono usati alternativamente per denunciare il disastro o per rassicurare sulle incidenze standard di malattie, pur sapendo che è negli anni che cova il male prima di manifestarsi. A disorientare è la scala stessa del bacino preso in considerazione: 90 comuni, tre milioni di persone, esposte a mix di inquinanti diversi e non sempre definiti. «Il pericolo è quello di non riuscire a leggere fattori di rischio presenti in alcuni luoghi, da una parte, e dall’altra creare allarme su persone che sono al sicuro», commenta Mario Fusco, coordinatore dei registri dei tumori in Regione. Di sicuro l’atlante sulla mortalità mostrerà, come L’Espresso può anticipare, che la mortalità è in eccesso in 60 comuni per gli uomini e 61 per le donne, residenti che si trovano sia dentro che fuori il perimetro amministrativo dei roghi.
Anche gli incendi non riconoscono il confine “standard” della zona considerata malata. Ne è un esempio Bellona, in provincia di Caserta. Ufficialmente fuori dalla Terra dei fuochi, mentre concretamente ospita un ex impianto di trattamento dei rifiuti che è andato a fuoco due volte: la prima nel 2012, la seconda a luglio del 2017. E “le fumarole”, come le chiamano i residenti, continuano ogni settimana. «Io quando sento la puzza, faccio un video, così che non possano dirmi che il problema è finito», racconta Adele, che vi abita di fronte. L’Ilside di Bellona è stata d’altronde l’anteprima della stagione attuale. Perché se è vero che i roghi di monnezza, di pneumatici e frigoriferi, al bordo della strada, sono diminuiti, grazie ai controlli coordinati dal prefetto, quest’estate in Campania gli incendi sono tornati. Diventando ben più preoccupanti.
In tre mesi, sono bruciati tre dei cinque impianti regionali convenzionati con il consorzio per il riciclo della plastica. Altri stabilimenti specializzati nel trattamenti degli scarti sono stati colpiti. L’ultimo rogo è accaduto la notte del 24 settembre: a Pastorano ha preso fuoco un enorme piazza di stoccaggio. Per interpretare il fenomeno, si parla del blocco dell’import di 32 tipi di rifiuti da parte della Cina. O di manovre per aumentare il prezzo dello smaltimento in Italia da paesi esteri, quindi per alzare il business attraverso l’emergenza. Di certo si rischia una nuova crisi. Per combatterla «l’approccio investigativo deve essere quello che abbiamo per gli altri reati di profitto», commenta Domenico Airoma, procuratore aggiunto del Tribunale di Napoli Nord: «Come per il traffico di stupefacenti, non dobbiamo fermarci al singolo pusher ma cercare di ricostruire legami e traffici. Seguendo i profitti. La stessa cosa va fatta per i reati ambientali». Perché anche gli inquinatori inizino a pagare. E non solo i cittadini.