Opere pubbliche: ma perché in Italia ci vogliono 14 anni per costruire un cavalcavia? BELLA DOMANDA !!!!!!!!!!!
di Milena Gabanelli e Andrea Marinell
Qualunque infrastruttura, grande o piccola, prima dei benefici porta disagio, e i cittadini lo sanno. Il problema è che non si sa mai quanto durerà questo disagio, e nemmeno quanto, alla fine, verrà a costare quel tratto di strada o cavalcavia. Intanto, nel nostro Paese, i tempi medi per ultimare un’opera pubblica sono di 4 anni e mezzo: 2 anni e 6 mesi se ne vanno in progettazione, 6 mesi per l’affidamento dei lavori e 1 anno e 4 mesi per realizzazione e collaudo. Naturalmente tutto poi dipende dalle dimensioni dell’opera. Per quelle che superano i 100 milioni di euro — come dighe, viadotti, ponti o lotti autostradali — si arriva fino a 14 anni e 6 mesi; per quelle fra 50 e 100 milioni ci vogliono 11 anni e 6 mesi; fra 20 e 50 milioni si scende a 10 anni e 2 mesi e così via, fino ai quasi 3 anni delle opere inferiori ai 100.000 euro. Queste ultime, le più piccole, sono anche le più numerose, quindi alla fine abbassano la media. Secondo i conti di Uver — il Nucleo tecnico di valutazione e verifica degli investimenti pubblici, che nel 2014 ha analizzato i tempi relativi a 35.000 opere, equivalenti a un finanziamento di 100 miliardi — le durate più lunghe, in media, sono quelle dei trasporti ferroviari, marittimi, aerei, e fluviali. Questo tipo di opere, rispetto al 2011, ha subito un allungamento dei tempi addirittura superiore al 30%.
Perché tanto tempo?
Ma perché ci vuole tutto questo tempo? Cominciamo dall’inizio: l’iter per una media o grande opera prevede che il Ministero delle Infrastrutture, senza portafoglio, faccia la programmazione e che poi si chieda il finanziamento al Ministero dell’Economia. Quindi il Cipe verifica il rapporto costi e benefici: questa fase può durare anni, fino a quando il progetto non viene portato al Consiglio dei Ministri per l’approvazione. A questo punto l’opera è coperta finanziariamente e si procede con la gara per l’affidamento dei lavori. E qui, non di rado, succede che l’impresa arrivata seconda contesti la gara, così si ferma tutto e il cantiere non parte. Ovviamente, più il bando è complesso o fatto male, più le ditte che non vincono hanno gioco facile con i cavilli. Quando poi finalmente il cantiere si apre, possono intervenire «imprevisti» che richiedono varianti in corso d’opera, e allora si ritorna di nuovo all’iter di approvazione.
Nuova Romea: i soldi ci sono, ma è tutto fermo
Un caso esemplare è quello della Nuova Romea, la strada che dovrebbe unire Civitavecchia a Mestre passando per Orte e Cesena. La prima delibera del Cipe, nel 2001, indicava una data di fine lavori ipotetica (5 anni) sulla base di uno studio di fattibilità. Ma non c’era ancora il progetto, il rapporto costo-benifici, la valutazione di impatto ambientale e tantomeno la copertura finanziaria (allora stimata in 929 milioni di euro). Da quella prima delibera, si passa a quella del 2013: nel frattempo si modifica il progetto e i costi lievitano a 10 miliardi e 65 milioni. La totale copertura finanziaria arriva con la delibera del 2016. Ora i soldi ci sono, la fine dei lavori è prevista per il 2025, ma ancora non si è mossa una pietra.
Tre anni per pubblicare cinque delibere
Un caso analogo è quello del Megalotto 3 della Strada Statale Jonica, che unisce Reggio Calabria e Taranto: ci sono voluti più di 3 anni soltanto per la pubblicazione delle cinque delibere di approvazioni dei progetti. Idem per il raddoppio della statale Maglie-Leuca, in Puglia, che doveva collegare il Salento. Sono passati circa 24 anni dalla prima ideazione e 14 anni dall’approvazione del progetto preliminare, ma è tutto fermo, nonostante sia stato inserito da anni fra le priorità. Gli enti locali hanno litigato sul tracciato e le imprese che non hanno vinto l’appalto hanno fatto ricorso al Tar, che ha annullato la gara. Intanto, su una strada perennemente ingolfata, si viaggia su una sola corsia e si registra un tasso di mortalità elevatissimo.
I tempi morti
A pesare sui tempi biblici ci sono quelli che Uver definisce «i tempi di attraversamento tra una fase e l’altra». Sono imputabili ad adempimenti amministrativi e allungano del 42% il tempo di realizzazione di un’opera pubblica. Un esempio, spiega Ance, riguarda Roma, dove non si riescono a riunire le commissioni di gara per aggiudicare i lavori di manutenzione stradale: in pratica, non si trovano i commissari di gara che scelgono chi dovrebbe aggiustare le buche. Secondo il rapporto Uver, i problemi attraversano tutte le fasi, a partire dalle carenze nella progettazione, dalla complessità degli iter autorizzativi e dalle incertezze finanziarie (negli ultimi 10 anni le risorse per le infrastrutture sono calate del 36%). I governi Letta, Renzi e Gentiloni hanno recuperato fondi con il decreto Sblocca Italia aggirando il Patto di Stabilità, ma questi soldi sono stati bloccati, a loro volta, dai tempi morti e dal Codice degli appalti. C’è poi la generale debolezza della governance del soggetto attuatore. Tutti fattori che «(…) hanno assunto un carattere sistemico», scrive Uver. In altre parole: non se ne esce.
La corruzione e il nuovo Codice degli applati
Nel nostro Paese la corruzione si annida proprio negli appalti di opere pubbliche. La buona notizia è che, nel 2016, è entrato in vigore il nuovo Codice degli appalti, con lo scopo di rendere le procedure più selettive e trasparenti. La cattiva notizia è che il nuovo regolamento sta contribuendo a dilatare ulteriormente i tempi del 50%. Parliamo delle procedure per il controllo delle offerte economicamente più vantaggiose, il controllo obbligatorio delle offerte anche nel caso di ribassi minimi, i limiti ai subappalti per lavori, servizi e forniture e l’obbligo di verifica dei costi della manodopera. Tutte norme sensate che però si innestano, ancora una volta, su un corpo burocratico malato.
19 Giugno 2018
fonte:www.corriere.it