A Roma e Milano un locale su 5 è della mafia. Se ci fosse una contabilità unica, si scoprirebbe che i clan possiedono una holding dal 16 mila addetti. Pagamento in contanti, pochi tavoli occupati: è la formula che permette di evitare i controlli
È LA più grande catena di ristoranti in Italia, conta almeno 5 mila locali, 16 mila addetti, e fattura più di un miliardo di euro l’anno. Non ha un marchio unico e i proprietari sono diversi. È la catena dei ristoranti dei boss. Spuntano lontano dai territori tradizionali, compaiono dietro marchi prestigiosi, hanno bilanci sempre in attivo. Gigantesche lavanderie alla luce del sole dei capitali del narcotraffico. Tutti insieme costituiscono una holding che ha dieci volte i ricavi del gruppo Sebeto (Rossopomodoro e Anima e Cozze), incassa 15 volte di più dei Fratelli La Bufala e un quinto di un colosso internazionale come Autogrill, che però di insegne ne ha 5.300 in 42 Paesi. Ma perché proprio i ristoranti? In che modo costituiscono un canale di riciclaggio? Quali sono i sistemi utilizzati?
LA PRESENZA DEI BOSS
Da Roma a Milano, passando per la Toscana, l’Emilia, la Liguria, non c’è indagine recente sulla presenza dei clan dalla quale non salti fuori il nome di un ritrovo alla moda creato dal nulla o ristrutturato senza badare a spese per portare a galla il denaro sporco delle cosche in un vortice di cambi societari, di insegne che hanno stravolto uno dei comparti più celebrati dell’economia del Belpaese, attanagliato da una morsa criminale che – stima Enzo Ciconte, già presidente dell’Osservatorio sulla legalità del Lazio – “assoggetta complessivamente il 15 per cento dell’intero settore”.
Nelle città più grandi, Roma e Milano, si calcola che un locale su cinque sia nell’orbita dei boss. I Piromalli della Piana di Gioia Tauro a Roma e sul Garda, i Coco Trovato da Catanzaro tra Lecco e la Madonnina, i Papalia di Platì sotto al Duomo, gli Iovine, i Bidognetti e gli Schiavone da San Cipriano d’Aversa e Casal di Principe a Campo de Fiori, a Ostia o a Fimicino come a Modena. Gli Arena da Isola Capo Rizzato in Romagna, forti di una radicata presenza nel settore turistico-alberghiero. I Pesce-Bellocco di Rosarno e poi gli Alvaro di Sinopoli nel cuore della Dolce Vita romana. I Morabito da Africo a dettar legge all’Ortomercato di Milano dove Salvatore, il nipote di Giuseppe, ‘u tiradritto, entrava in Ferrari esibendo un regolare pass da facchino. E lì si era fatto autorizzare il “For the King”, un night che era il suo ufficio di rappresentanza nel cuore della Wall Street – 3 miloni di euro al giorno – della frutta e verdura italiana.
Clan che si fanno la guerra in Calabria si ritrovano soci in affari a migliaia di chilometri. E negli affari alimentari si mischiano obbedienze diverse. In un locale di Brera, gestito da calabresi, era di casa il figlio di Tanino Fidanzati, il siciliano re della droga milanese. I Caruana da Siculiana, in provincia di Agrigento, con base a Ostia, si erano spinti a Chioggia, per trattare un complesso turistico. Nel litorale laziale, il boss Carmine Fasciani era in affari con i napoletani, gestendo il “Faber Village” e un ristorante. È questa la nuova frontiera di una mafia che non conosce confini. “La quinta mafia”, la definisce Libera.
Nella capitale lavorava Candeloro Parrello, boss di Palmi, che nel portafoglio delle sue attività sequestrate, per un totale di 130 milioni, aveva “La Veranda” a Fiano Romano e uno stabilimento balneare a Punta Ala in provincia di Grosseto. Dalla pizzeria “Bio Solaire” di via Valtellina a Milano, di cui era socio occulto, Vincenzo Falzetta amministrava gli affari di Francesco Coco Trovato che all’Idroscalo aveva impiantato il “Cafè Solaire”. I Molè che con i Piromalli controllavano i container cinesi al porto di Gioia Tauro avevano invece individuato nel complesso di “Villa Vecchia”, hotel storico con due ristoranti a Monteporzio Catone un ottimo investimento per far fruttare una fetta dei 50 milioni a disposizione. A curare l’affare era Cosimo Virgiglio, titolare di una ditta di import-export. L’hotel era diventato la base del clan e quando i vecchi proprietari avevano provato a protestare, Virgiglio aveva provveduto a farli sloggiare nottetempo. Nino Molè, erede di Rocco ucciso nel 2008, per dire alla fidanzata che lì era ormai tutto della famiglia, spiegava: “Tu mangi la pasta gratis”.
DOVE C’E’ PIZZA C’E’ MAFIA
“Dove c’è pizza c’è mafia”, ha sostenuto un dei pochi pentiti calabresi all’indomani della strage di Duisburg, che rivelò al mondo quanto la Germania che mangiava italiano fosse infestata dal bubbone. Lo aveva intuito negli anni Ottanta anche Giovanni Falcone indagando sulla Pizza Connection. Il sistema però si è evoluto. Come mai i boss si interessano sempre di più ai ristoranti? Una premessa è d’obbligo: tra i tavoli gira normalmente molto contante. Una condizione essenziale per non lasciare tracce. I pagamenti elettronici, al contrario, sono facilmente riscontrabili, costituiscono uno degli strumenti per la cosiddetta tracciabilità del denaro. Ecco perché tra le attività commerciali i locali pubblici sono quelli più ambiti, complice quella che Lino Stoppa, presidente della Fipe, la federazione dei pubblici esercizi, chiama “liberalizzazione di fatto”.
Il flusso di contante è la condizione essenziale sia per chi investe in attività ad alto rendimento sia per chi, invece, è a caccia solo di un paravento. Alla “Rampa”, il locale di Trinità dei Monti che la magistratura romana voleva sequestrare perché ritenuto di proprietà dei Pelle-Vottari di San Luca in Aspromonte, la prima cosa che notarono i finanzieri incaricati delle indagini è che non si accettavano carte di credito e lo scrissero nel loro rapporto. La Rampa, anche per via della posizione, ha sempre avuto una folta clientela, ma ci sono ristoranti acquistati per milioni, rimessi totalmente a nuovo eppure drammaticamente deserti. Posti in cui non entra mai nessuno. Ma le luci rimangono accese fino a tardi e il personale è sempre presente. A che servono quei locali fantasma? Primo, per giustificare lavori edili e acquisti di arredi ampiamente sovrastimati, pagamenti di merce mai acquistata che nessuno ha mai veramente consegnato e di piatti che non sono stati cucinati. Quei locali servono a far girare pezzi di carta. Per far affiorare soldi che erano già nel cassetto. Chi li gestisce non ne ha alcun bisogno: sono solo una copertura per introiti altrimenti ingiustificabili. Il sistema funziona a prescindere dal numero effettivo di clienti. E naturalmente è ampiamente praticato da chi riempie i coperti per davvero ma può moltiplicarli.
In un caso o nell’altro, il ristorante è il terminale di una filiera alimentare: dai prodotti della terra alle carni, dalle mozzarelle al caffè. E il giro di fatture parte da lontano. Dalla produzione, al trasporto, dallo smistamento alla vendita. Un sistema economico parallelo fittizio o sovrastimato. “Negli ortomercati e nella grande distribuzione c’è il cuore dell’interesse delle mafie che si spinge fino ai ristoranti”, dice l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione.
Il fisco diventa un costo necessario per far tornare in circuito il denaro sporco, ma presenta dei vantaggi. Costa meno di quel 30 per cento che in media tengono le agenzie che a livello internazionale si occupano di occultare il denaro delle mafie ed è ampiamente recuperabile con altri artifizi contabili. E poi è a rischio zero: “Non esiste l’autoriciclaggio”, sottolinea Maurizio De Lucia, pm della Direzione nazionale antimafia.
LE FAMIGLIE IN CUCINA
Quasi mai i boss compaiono direttamente nella gestione delle attività. Usano i prestanome e difficilmente tengono un’insegna a lungo. Scelgono come forma giuridica le società, comprano e vendono rapidamente. Sbaraccano e ricominciano da un’altra parte. “Un turn over frenetico” che è più di una spia di inquinamento, fa notare Lorenzo Frigerio di Libera Lombardia. Ogni anno aprono 2.000 nuovi ristoranti e le società sono in numero doppio rispetto a quelle che chiudono i battenti.
I boss si fidano solo di mogli e figli. Ma qui confidano nella oggettiva difficoltà delle indagini, nella farraginosità della procedura, nelle lungaggini di un processo che parte largo con i sequestri e finisce nell’imbuto strettissimo delle effettive confische. Ai parenti prossimi è riservata la porzione meno fragile di quella costruzione. Salvata quella il meccanismo si autorigenera e la prima attività commerciale “pulita” può giustificare successive acquisizioni. Fino a nuove indagini. “Ormai – dice Alberto Nobili, memoria storica della procura di Milano – arrestiamo i nipoti dei capimafia degli anni Ottanta”.
Ma come entra un clan nel mondo della ristorazione? L’acquisto è solo una delle forme. Lontano dai territori del Sud dove l’usura è praticata ma sotto traccia anche dove, come in Sicilia con Cosa nostra, è espressamente vietata agli uomini d’onore, i boss usano il prestito come forma di finanziamento di attività fino a quel momento perfettamente legali. Il boss sostiene i conti del ristorante e punta a prendersi tutto, magari lasciando il vecchio proprietario come intestatario senza potere e senza soldi. Era la specialità del clan di Biagio Crisafulli che aveva base a Quarto Oggiaro e alla Comasina a Milano. È Accaduto ad Amelia, in provincia di Terni dove il clan calabrese dei Marando aveva acquisito per un credito da 50 mila euro il 50 per cento del “Parco degli Ulivi”. Era accaduto al ristoratore Nino Istrice a Palermo che si era fatto aiutare dal boss Salvatore Cocuzza. Il rischio di esproprio per usura è in cima alle preoccupazioni dei ristoratori romani e i dati sul turnover delle aziende confermano i timori. A Roma interessa 26 mila commercianti, alle prese con 3 mila istanze di fallimento ogni anno.
Per Vincenzo Conticello, il titolare della “Antica focacceria San Francesco” di Palermo, che ha denunciato gli estorsori in un drammatico confronto d’aula cominciò tutto, non diversamente che per i ristoratori campani, con una fornitura di mozzarelle. Il grossista era il rampollo del boss Masino Spadaro. Del resto l’ultima indagine sul racket nel capoluogo siciliano ha svelato come l’imposizione di un marchio di caffè fosse una moderna testa d’ariete per entrare nelle aziende.
DALLA VERANDA AL CAFE’ DE PARIS
A Napoli quasi non fa sensazione che Giuseppe Setola, il capo degli stragisti casalesi si sia impadronito della “Taverna del Giullare” in piazza dei Martiri. O che Carmine Cerrato, a capo degli scissionisti di Scampia avesse a disposizione per i summit l’ex “Etoile” chiuso al pubblico. E Palermo non si è certo sorpresa quando i Graviano volevano comprarsi “La Cuba”, uno dei locali più in della città, né quando Provenzano ha fatto capolino dietro la proprietà di un resort sulle Madonie con cantina d’eccellenza. Roma invece ebbe un sussulto quando l’anno scorso Ros e Scico e le Procure di Reggio Calabria e Roma scoprirono che il “Cafè de Paris” di via Veneto, dopo un periodo di declino, era finito nelle mani del clan alleato degli Alvaro-Palamara di Sinipoli e Cosoleto: gli avevano piazzato un barbiere calabrese come manager. Ma l’acquisto del Cafè de Paris non era che il coronamento di un’architettura finanziaria, una scalata da 200 milioni di euro costruita con cura a partire dal 2001.
Era cominciato tutto quando Vincenzo Alvaro, figlio di Nicola che aveva ereditato il bastone del comando a Cosoleto, e la moglie Grazia Palamara si era stabilito a Roma per scontare il divieto di soggiorno in Calabria facendosi assumere come aiuto cuoco da un cugino al “Bar California” di via Bissolati, a una manciata di metri da via Veneto. In sette anni Vincenzo Alvaro ha chiuso accordi che gli garantivano il controllo di sei bar e tre ristoranti. È al California che fa la sua comparsa Damiano Villari, un barbiere di Sant’Eufemia di Aspromonte che ha un reddito da 15 mila euro e conclude per 2,2 milioni di euro l’acquisto del Cafè de Paris, dopo aver comprato anche l’esclusivo “George’s” di via Sicilia: un affare da 1 milione di euro. Oggi il George’s è chiuso. Un cartello avverte di rivolgersi alla portineria vicina. Dove ricordano ancora la folla di auto di lusso che intasavano la strada all’ora dell’aperitivo. Il California è ancora aperto, lo gestisce un amministratore giudiziario. Alla cassa c’è un giovane calabrese che non vuol dire il nome, non conosce Grazia Palamara e Vincenzo Alvaro e dice di non aver visto mai Damiano Villari. Racconta che il bar è di un certo suo cugino calabrese, “persona che si alza alle 4 del mattino”. Sostiene che il bar gli sarà restituito. “Sta finendo, sta finendo”, ripete scrollando le spalle. La pensa così anche l’egiziano che serve compito ai tavoli del Cafè de Paris: “Finirà presto, con i proprietari si stava meglio. Loro sì che hanno i soldi”.
Enrico Bellavia
(Tratto da Repubblica)