L’Espresso
Torna libero l’ex boss Giovanni Brusca
Dopo 25 anni arriva il fine pena per l’attentatore di Capaci. Nel pomeriggio ha lasciato il carcere di Rebibbia. Dopo il piano per screditare i pentiti, ha collaborato con la giustizia accusando gregari e colletti bianchi e rivelando la strategia terroristica di Cosa nostra
di Lirio Abbate
31 MAGGIO 2021
Ha lasciato definitivamente il carcere il mafioso Giovanni Brusca, l’uomo della strage di Capaci, l’assassino di donne e bambini che operava sotto le direttive di Salvatore Riina. Ma anche il collaboratore di giustizia che ha svelato ai magistrati di tutte le procure d’Italia segreti e retroscena di Cosa nostra, non solo dell’ala militare, ma anche di quella che ha avuto contatti con il mondo politico e imprenditoriale.
Oggi è stato l’ultimo giorno di carcere per Brusca. Le porte di Rebibbia si sono spalancate nel pomeriggio per richiudersi alle sue spalle. Ha scontato tutta la pena che gli era stata inflitta, e a differenza di altri collaboratori di giustizia, lui la condanna l’ha espiata in cella.
Adesso è un uomo libero, sottoposto a controlli e protezione, ma libero. Tecnicamente resta però sottoposto a quattro anni di libertà vigilata. Così ha deciso la corte d’Appello di Milano, l’ultima a pronunziarsi sul conto del condannato in relazione al processo più recente.
Non c’è mai stata una collaborazione con la giustizia più discussa di quella di Giovanni Brusca. Arrestato da agenti della polizia di Stato il 20 maggio 1996 in una villetta vicino ad Agrigento, dove il boss era con il fratello Enzo e le rispettive mogli e figli, ha ottenuto la “patente” di pentito nel marzo del 2000 dopo lunghe polemiche.
Quando, venticinque anni fa, venne pubblicata la notizia che la sua compagna e il figlio erano sottoposti alle misure urgenti di protezione riservate ai familiari dei collaboratori di giustizia, l’allora difensore del boss, l’avvocato Vito Ganci, rivelò di avere ricevuto dal suo assistito confidenze su un “complotto” in cui voleva coinvolgere uomini delle istituzioni.
Brusca aveva fatto al suo difensore, tra gli altri, il nome dell’ex presidente della Camera Luciano Violante. Si trattava di un piano ideato dallo stesso Brusca per screditare l’antimafia, i collaboratori di giustizia e creare difficoltà in importanti processi di mafia. Questa idea non venne mai attuata. Ma a confermare il piano del falso pentimento fu il fratello, con il quale Giovanni Brusca si era accordato a gesti durante un’udienza di un processo, affinché anch’egli si fingesse pentito e sostenesse quello che il fratello dichiarava.
In seguito lo stesso Giovanni Brusca ha ammesso la circostanza.
La collaborazione vera e propria è stata segnata da un lungo travaglio interiore. «La mia non è una scelta facile. Pesa la storia della mia famiglia, il dover accusare altri, il giudizio che mio padre darà di me», disse Giovanni Brusca. Suo padre, Bernardo Brusca, deceduto in carcere, è stato capo della cosca di San Giuseppe Jato, ed è stato un autorevole esponente della cupola. Giovanni ne aveva ereditato il “prestigio” mafioso.
Nei lunghi interrogatori davanti ai magistrati di Palermo, Caltanissetta e Firenze, che si occupavano anche delle stragi del 1992 e del 1993, il boss ha ammesso la sua partecipazione all’attentato a Giovanni Falcone, a numerosi delitti eccellenti e all’uccisione di Giuseppe Di Matteo, il figlio undicenne del pentito Mario Santo Di Matteo strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre che aveva parlato con i magistrati.
Ha rievocato le riunioni in cui fu decisa la strategia criminale di Cosa nostra, ha accusato altri boss, ha parlato degli “aggiustamenti” dei processi. Oltre a ricostruire una lunga catena di sangue, Brusca ha parlato anche dei rapporti tra Cosa nostra, la politica e la vasta area grigia dei fiancheggiatori. Nel 2002, dopo lunghe e burocratiche autorizzazioni, il mafioso si è sposato in carcere con la sua compagna, dalla quale aveva avuto un figlio.
Negli anni passati aveva ottenuto l’autorizzazione dei giudici del tribunale di sorveglianza di Roma, grazie alla “buona condotta”, di godere permessi premio di qualche giorno. Adesso per lui è arrivato il fine pena grazie ad un ultimo abbuono di 45 giorni di liberazione anticipata, deciso dal tribunale di sorveglianza di Roma e recepito dai giudici di Milano.