Il Fatto Quotidiano, Giovedì 2 giugno 2016
Trattativa Stato – mafia, giudici di Firenze: “E’ provata e alimentò la strategia stragista di Cosa nostra”
E’ quanto si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo in appello per il boss di Brancaccio Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio del 1993. Secondo la corte d’Assise le bombe in Continente facevano parte di un progetto terroristico e la mafia riuscì a trovare interlocutori tra uomini politici e le istituzioni per alleggerire il 41 bis. Associazione Georgofili: “Nostri figli morti per quel patto”
di Giuseppe Pipitone
L’esistenza della Trattativa Stato – mafia? È provata “dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista”. Parola della corte d’Assise d’appello di Firenze che il 24 febbraio scorso ha condannato all’ergastolo Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili del 27 maggio del 1993. Una prima condanna per il boss di Brancaccio era stata annullata con rinvio nel 2014 dalla corte di Cassazione, che aveva chiesto ai giudici di Firenze l’approfondimento di alcuni elementi di prova legati alle testimonianze dei collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza e Pietro Romeo. Due anni dopo ecco che nel secondo processo d’appello la corte presieduta dal giudice Luciana Cicerchia ha confermato la condanna al fine pena mai per Tagliavia: e nelle motivazioni della sentenza depositate lo scorso 20 maggio, si pronuncia anche sull’esistenza della cosiddetta Trattativa tra pezzi dell’istituzioni e Cosa nostra. Per la verità, già nel processo di primo grado i giudici toscani si erano espressi in maniera netta sull’esistenza dell’interlocuzione tra apparati dello Stato e la mafia all’ombra delle stragi del 1992 e 1993. “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”, scrissero nel 2012 i giudici della corte d’Assise, che dedicarono più di un centinaio delle 547 pagine delle motivazioni al capitolo delle contatti tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra.
“La strategia stragista salto di qualità di Cosa nostra”
Adesso, invece, sono solo una decina le pagine utilizzate dai giudici dell’appello bis per mettere in fila gli eventi precedenti e successivi alla strage di via dei Georgofili: tessere che fanno tutte parte dello stesso puzzle, e cioè quello relativo all’individuazione del movente delle stragi, strettamente connesso della cosiddetta Trattativa Stato – mafia. Un argomento che i giudici individuano subito come bisognoso di “ulteriori esplorazioni investigative”, data la “viscosità” del tema. Dopo questa premessa, però, la corte sottolinea che “si può considerare come dato processualmente raggiunto che la strategia stragista, strumento del tutto inconsueto per la compagine mafiosa, tradizionalmente interessata più al controllo del territorio e di attività illecite lucrose, abbia rappresentato un salto di qualità strategico con l’attingimento di obiettivi diversi ed indifferenziati rispetto all’eliminazione di specifici avversari, rispondente non solo a impulsi utilitaristici di natura vendicativa ma al raggiungimento di obiettivi natura terroristica”. Come dire: l’escalation di terrore messa in campo nel biennio 1992/1993 più che alla mafia sembra appartenere ad una vera a propria organizzazione terroristica. La corte d’Assise d’appello annota poi che “all’elaborazione di tale strategia si giunse tuttavia per gradi”. Uno è l’evento individuato dai giudici come momento intermedio dell’escalation a suon di bombe: il fallito attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro il 14 maggio del 1993. Da lì in poi s’intravede “un vero e proprio distacco dal proseguimento dell’obiettivo immediato”. Lo scopo? “L’eliminazione dell’articolo 41 bis”, e cioè il carcere duro per detenuti mafiosi, che “avrebbe soprattutto scardinato il sistema comunicativo fino ad allora vigente”. È per questo motivo che i giudici toscani parlano di “finalità ricattatoria” da parte Cosa nostra, corroborata le dichiarazioni di collaboratori di giustizia come “Pasquale Di Filippo, Giovanni Ciaramitaro, Tullio Cannella, Pietro Romeo e Giovanni Brusca. Ed infine Gaspare Spatuzza”.
“La Trattativa è provata: alimentò strategia stragista”
È a questo punto che la corte presieduta dal giudice Cicerchia entra nel merito della questione Trattativa. “Molto più complessa e non definitiva – scrivono – è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo in ordine all’esatta individuazione dei termini e dello stato raggiunto dalla cosiddetta Trattativa, la cui esistenza, comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte”. Come dire: la Trattativa è provata dai colloqui tra l’ex generale del Ros Mario Mori e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino nell’estate del 1993. Contatti che vennero poi interrotti ma che incoraggiarono la convinzione da parte di Cosa nostra che una controparte con cui trattare c’era e aveva perfettamente capito il significato dell’escalation di attentati messa in campo dalla strage di via d’Amelio in poi. “Si può dunque considerare provato – continua dunque la corte – che dopo la prima fase della cosiddetta trattativa, avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obbiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”.
“L’alleggerimento del 41 bis e l’arrivo di Dell’Utri”
Secondo la corte fiorentina, tra l’altro, “l’oggettivo ammorbidimento della strategia di contrasto alla mafia (e cioè l’alleggerimento del 41 bis per oltre trecento detenuti mafiosi nell’autunno del 1993 ndr) ben poteva ingenerare la convinzione della cedevolezza della istituzioni, anche perché nel frattempo si avvicendavano sulla scena politica nuovi interlocutori oggetto di interesse da parte dell’apparato mafioso i cui referenti furono individuati in Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri”. In pratica è la fase finale della Trattativa, quando – secondo la ricostruzione della procura di Palermo – scende in campo Dell’Utri siglando un nuovo patto con Cosa nostra. Ed è per questo che nelle loro motivazioni i giudici ricordano come “la lunga preesistenza di rapporti ritenuti causalmente agevolativi della compagine associativa mafiosa” e lo stesso fondatore di Forza Italia sia “stata recentemente acclarata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 9 maggio 2014”. Il riferimento è per la sentenza che due anni fa ha condannato in via definitiva Dell’Utri a sette anni di carcere per concorso esterno a Cosa nostra.
Associazione Georgofili: “Nostri figli morti per la Trattativa”
“Si chiude definitivamente quella deplorevole altalena fatta di espressioni come ‘trattativa presunta, trattativa non ci fu. Oggi sappiamo perché sono morti i nostri figli: in nome e per conto di una trattativa, perché la mafia voleva abolito il 41 bis. È il primo grande passo verso la verità completa, un anniversario dopo 23 anni che comincia a dare un senso alla nostra speranza di giustizia”, dice Giovanna Maggiani Chelli presidente dell’Associazione tra i familiari della Strage di via dei Georgofili a Firenze, commentando le motivazioni della condanna Tagliavia. Che in pratica, sembrano rilanciare la ricostruzione della procura di Palermo, attualmente al vaglio della corte d’assise del capoluogo siciliano: alla sbarra ci sono politici (tra i quali lo stesso Dell’Utri), boss mafiosi e alti ufficiali dei carabinieri (incluso Mori) accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Accusa dal quale è stato assolto in primo grado per non aver commesso il fatto Calogero Mannino, l’ex ministro Dc che ha scelto di essere processato con il rito abbreviato: per la procura era l’uomo che aveva dato l’input ad una interlocuzione con Cosa nostra. Due volte innocente è stato riconosciuto anche il generale Mori, imputato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 a Mezzojuso: per gli inquirenti era una delle “cambiali” siglate durante il Patto Stato-mafia.