In diversi Paesi dell’Unione esistono regimi carcerari speciali per i detenuti ritenuti più pericolosi, principalmente rivolti ai terroristi, ma il nostro resta il più rigido e quello da cui è più difficile uscire
Alfonso Bianchi
Giornalista
03 febbraio 2023 12:13
Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico mandato al 41 bis, ha riacceso il dibattito in Italia sull’opportunità di questa forma estrema di detenzione che per molti è equiparabile alla tortura. Isolare una persona quasi completamente dagli altri detenuti e privarla della socialità, controllarla nei casi più gravi giorno e notte anche in cella con una videosorveglianza continua, allontanarla dai luoghi in cui vive la sua famiglia, rendendo difficile il mantenimento dei rapporti personali e controllare le conversazioni che ha con i suoi cari è davvero necessario per la sicurezza della società? Ed è umanamente accettabile?
Quello del 41 bis è un caso praticamente unico in Europa, con solo pochi esempi di altri regimi simili che possono essere paragonati al nostro. “Anche in altri Paesi esistono regimi speciali che sostanzialmente sottopongono persona detenuta a restrizioni superiori a quelle di altri detenuti. Questi sono molto più duri nei Paesi che hanno dovuto confrontarsi con il terrorismo o in diversi Stati dell’Europa dell’Est, che hanno regimi carcerari più severi e di derivazione sovietica. Ma quello del 41 bis resta un regime che ha delle sue unicità”, spiega a Today.it Adriano Martufi, ricercatore di Diritto penale all’Università di Pavia e Guest Reaserch Fellow all’università di Leiden, nei Paesi Bassi, che è un esperto di questioni legate ai diritti dei detenuti.
In Spagna i detenuti ritenuti più pericolosi sono sottoposti al ‘regimen cerrado’, il carcere più duro che consiste nell’isolamento in cella e un massimo di tre ore di attività all’aria aperta solitamente con soltanto un altro detenuto o al massimo con altri tre. Questo regime viene utilizzato principalmente per i militanti dell’Eta, il gruppo armato indipendentista basco. Sebbene non esistano carceri speciali per questi detenuti, questi vengono inviati in strutture molto lontane dalla loro città di origine, allo scopo di rendere difficili i contatti con i proprio familiari o anche con altri membri dell’organizzazione. Proprio come avviene con il 41 bis in Italia.
La revisione della decisione di affidamento al ‘regimen cerrado’, viene effettuata da una specifica commissione ogni tre mesi e confermata dalla Segreteria generale degli istituti penitenziari di Madrid. Il regime è stato criticato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, un organo del Consiglio d’Europa, che ha sottolineato come questi detenuti siano spesso sottoposti a violenze e il fatto che questa misura che dovrebbe essere speciale e limitata nel tempo, mentre viene spesso prolungata per periodi troppo lunghi.
Uno degli Stati che più recentemente ha introdotto regimi di carcere più duro è il Belgio. Dopo gli attentati di Parigi del 2015 il Paese ha introdotto il D-radex, un rigido regime di detenzione per i detenuti ritenuti estremisti o terroristi islamici, che dovrebbe servire innanzitutto a evitare che facciano proselitismo in prigione e poi a de-radicalizzarli. Esistono nella nazione due sezioni D-radex, a Ittre e Hasselt, ciascuna con circa 20 celle. Queste sezioni sono come prigioni all’interno della prigione.
I detenuti in queste sezioni non hanno contatti con gli altri detenuti e sono soggetti a regole di confinamento più severe, restrizioni alle telefonate e hanno diritto a visite esterne solo sotto la supervisione di una guardia. Hanno diritto a solo un’ora d’aria al giorno, a gruppi di tre, sotto controllo e senza avere quasi nessun accesso ad attività, formazione e lavoro in carcere. In questo regime è ad esempio detenuto Salah Abdeslam, uno dei membri del commando responsabile degli attacchi coordinati di Parigi del 13 novembre 2015. Nel 2021 alcuni dei detenuti sottoposti a questo regime hanno vinto una causa che ha riconosciuto la disumanità delle loro condizioni di detenzione e l’assenza di una vera possibilità ricorso, concedendo loro un’indennità di 2.500 euro ciascuno per danni morali.
Uno dei regimi più simili al 41 bis nell’Unione europea esiste in Polonia. Lì i detenuti ritenuti più pericolosi per aver commesso crimini di una particolare crudeltà, perché ritenuti responsabili di aver attentato alla sovranità o all’integrità della Repubblica, per aver commesso violenze contro altri detenuti o agenti o anche per, come in Italia, essere ritenuti membri della criminalità organizzata, possono essere messi nella cosiddetta sezione N. Il nome deriva dalla prima lettera della parola ‘niebezpieczny’, che in polacco significa appunto pericoloso.
Questi detenuti sono sottoposti a una costante supervisione dei movimenti, all’esterno e all’interno della cella. I detenuti ‘pericolosi’ possono lavorare, studiare, pregare, fare attività sportive, educative e culturali ma solo nella sezione separata. Tutti i loro movimenti sono possibili solo sotto scorta e ogni volta che lasciano la cella sono sottoposti a severi controlli personali e alcuni denunciano che spesso sono anche troppo invasivi e violenti. Questo regime era stato condannato nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che nel caso Piechowicz ha puntato il dito contro Varsavia sostenendo che un regime del genere se non è giustificato da motivazioni valide e soprattutto se non è limitato nel tempo ma è continuativo, viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che proibisce la tortura o i trattamenti inumani o degradanti. Da allora il Paese ha leggermente corretto il tiro ma il regime resta in vigore ed è sempre molto duro.
“Di fatto questo è anche il principale problema del 41 bis in Italia, ma la nostra legislazione in materia ha avuto l’abilità di mettere in piedi un espediente per sfuggire alle condanne della Cedu. Il 41 bis viene inizialmente dato per un massimo di 4 anni, che poi sono di volta in volta rinnovabili di altri due. In questo modo si presenta come regime transitorio ma di fatto finisce per essere un regime permanente a cui vengono sottoposti gli ergastolani fino alla morte, come dimostra la vicenda di Bernardo Provenzano”, che è morto al 41 bis nonostante le sue condizioni fisiche e psicologiche non fossero più tali da permettergli di costituire un rischio per la società. La Cedu ha condannato il nostro Paese per quel caso, ma non per il 41 bis in sé.
“Di fatto però quello di Provenzano non è un caso isolato perché la gran parte dei detenuti in quel regime sono ergastolani e per loro il 41 bis viene di fatto rinnovato quasi automaticamente, basta l’assenza di notizie che possano far pensare che le condizioni di legame con l’organizzazione criminale di appartenenza siano cambiate”, spiega Marfufi. Di fatto la pericolosità del detenuto non viene di nuovo realmente riesaminata, e si finisce per andare avanti con rinnovi continui. In più il regime si accoppia spesso all’ergastolo ostativo, mostrando ancora più la natura permanente del 41 bis e non solo temporanea: secondo i dati di Antigone dei detenuti al 41 bis, 298 sono ergastolani.
Per Martufi quello di Cospito rischia di diventare un nuovo caso Provenzano. “Se continuerà con lo sciopero della fame, anche se ci sarà un’alimentazione forzata, quell’uomo perderà le normali capacità motorie e cognitive e, al di là della gravità o meno dei crimini per i quali è stato condannato, decadranno di fatto le condizioni per una sua detenzione al 41 bis. Se lo Stato deciderà quindi di accanirsi contro di lui questo verrebbe sicuramente ritenuto dalla Cedu una violazione dell’articolo tre, una forma di tortura”.