Un trio di italiani inquisiti in Calabria incassa milioni in Florida con le case degli sfrattati
Un inchiesta giornalistica congiunta L’Espresso – Miami Herald svela i massicci investimenti in Florida di personaggi legati alla ‘ndrangheta e a un ex terrorista dell’Ira. Al centro del caso, una rete di società offshore rivelate dai documenti inediti del consorzio Icij
di Paolo Biondani, Leo Sisti (l’Espresso), Ben Wieder, Shirso Dasgupta (Miami Herald)
Dagli investimenti turistici in Calabria alle speculazioni immobiliari in Florida. Dal «Gioiello del mare», un mega resort sulla costa jonica, al grande business delle case di Miami. Affari milionari trattati da anonime società offshore, che nascondono interessi italiani. Sullo sfondo, l’ombra della ndrangheta.
Nei primi mesi del 2013 in Calabria le operazioni Black Money e Metropolis colpiscono clan potentissimi, i Mancuso di Limbadi e i Morabito di Africo, con indagini a tappeto e arresti clamorosi. Ci sono nomi già noti alle cronache di mafia, molti con curriculum di grande spessore criminale. Ma anche colletti bianchi, professionisti, avvocati, uomini d’affari internazionali, incensurati e insospettabili.
Antonio Velardo non è calabrese, è nato a Napoli nel 1977 ed è un giramondo. Si qualifica imprenditore immobiliare, anzi secondo il suo linguaggio “property developer”, e vanta tra l’altro un brevetto di pilota d’aereo ottenuto a Daytona Beach, negli Stati Uniti, e una laurea in ingegneria civile conseguita in un’università inglese. Controlla una costellazione di società in Italia e all’estero, sparse tra Gran Bretagna, Irlanda, Tunisia, Cipro, Santo Domingo e, appunto, Florida. In quelle due inchieste si trova coinvolto suo malgrado, fianco a fianco, con boss della ‘ndrangheta di prima grandezza, con imputazioni pesanti: in Black Money è accusato di associazione mafiosa ed evasione fiscale. Ai processi però l’accusa di mafia cade. Nel giudizio di primo grado, nel 2017, Velardo viene condannato a quattro anni solo per associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. In appello, nel 2019, anche questa accusa viene cancellata dalla prescrizione. Nel processo Metropolis, invece, viene assolto già in primo grado.
L’idea di puntare sul «Gioiello del mare», nel comune calabrese di Brancaleone, nasce nel 2007. Velardo ci tiene, all’estero ha già piazzato immobili per un’azienda spagnola, quindi vuole rientrare in Italia. Guarda alla Calabria e viene attratto dall’idea di sfondare anche lì. Quel progetto immobiliare, grandioso, avrebbe dovuto fruttare 60 milioni di euro di ricavi netti. Prevedeva la costruzione, tra il 2006 e il 2013, di ben 422 appartamenti, realizzati da una società di un certo Antonio Cuppari, considerato vicino alla cosca dei Morabito, che in seguito verrà condannato a più di 11 anni di reclusione. Tutt’intorno, campi da golf, centri commerciali, hotel, impianti sportivi, piscine e aree giochi per bambini. Di fatto, una cementificazione selvaggia di un bellissimo territorio, molto contestata dalle organizzazioni ambientaliste.
Nel marzo 2007 ecco dunque entrare in scena Velardo: firma con Cuppari un accordo di cinque anni. Sarà lui a promuovere la vendita di quegli alloggi a clienti inglesi e russi, insieme a un socio estero, Henry James Fitzsimons, che è già suo partner nella società irlandese Vfi Overseas di Dublino. Nella filiera commerciale entrano anche due calabresi doc di Melito Porto Salvo, Francesco L’Abbate, avvocato, e Domenico Musarella, commercialista. Tutti e due poi invischiati nell’inchiesta Black Money, con accuse di associazione per delinquere con finalità di riciclaggio ed evasione fiscale. In tribunale vengono condannati a meno di due anni, ridotti in appello a sei mesi, ma sono tuttora in attesa di un nuovo processo di secondo grado, ordinato dalla Cassazione, ma rinviato per il covid.
Velardo, L’Abbate e Musarella formano un sodalizio d’affari che si muove non soltanto in Calabria, ma anche al di là dall’Oceano. Soprattutto in Florida, prima e durante quei processi calabresi. Le loro iniziative hanno lasciato tracce nei Pandora Papers, un’inchiesta mondiale coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), rappresentato in Italia dall’Espresso. Un lavoro giornalistico fondato su 11,9 milioni di documenti riservati che svelano come i ricchi e i potenti spostano ricchezze nei paradisi fiscali con l’aiuto di società offshore, create da 14 studi internazionali specializzati.
Le carte mostrano che L’Abbate e Musarella sono beneficiari di compagnie offshore registrate nelle British Virgin Islands (BVI), come la Usa Tax Lien Investments e la Accent Wealth Ltd. Quest’ultima è stata costituita nell’agosto 2012 insieme a Jacopo Iasiello, trasferitosi da Napoli a Miami per lavorare come agente immobiliare, in collegamento con uno studio legale di Milano. E proprio a lui Velardo, senza sapere di essere intercettato, si è rivolto ai primi di marzo del 2011, chiedendo di procurargli una catenina d’oro per il battesimo del figlio di Antonio Maccarone, genero del boss calabrese Pantaleone Mancuso, detto Vetrinetta, nonché un Rolex per Maccarone stesso. Doveva fare bella figura, era lui il «padrino» di battesimo di quel bambino. Al telefono spiegava che si trattava di «un’operazione politica»: Maccarone era «una persona molto importante» E si raccomandava che l’orologio fosse «originale, certificato con la garanzia», perché lui cercava «protezione».
Gli affari con le case pignorate in Florida
Perché Velardo, L’Abbate, Musarella e Iasiello abbiano individuato nella Florida un’opportunità per fare soldi, è presto detto. La crisi dei mutui, quella dei famosi sub-prime del 2007-2008, culminata con il fallimento della banca americana Lehman Brothers e la successiva recessione mondiale, aveva provocato un’ondata di pignoramenti e sfratti. Milioni di persone, che si erano illuse di poter comperare a debito delle proprietà negli Stati Uniti, hanno perso tutto. Esplosa la crisi, sul mercato si è creata una grande abbondanza di appartamenti, ormai in svendita a valori stracciati. E il quartetto di imprenditori italiani ne ha approfittato, comperando in Florida più di 130 proprietà a un prezzo medio di 120 mila dollari, investendo, in totale, più di 15 milioni, secondo i risultati di una ricerca fatta dai giornalisti del Miami Herald, che hanno collaborato con L’Espresso. Transazioni molto spesso in contanti, concluse in tempi rapidissimi.
In particolare tra il 2012 e il 2017, quindi anche durante le indagini italiane Black Money e Metropolis, le compagnie estere legate a Velardo hanno fatto incetta di almeno 70 case, molte delle quali situate nella contea di Miami-Dade, per un costo medio 85 mila dollari l’una. Acquisti realizzati tramite società denominate Apax Investments (in seguito ribattezzata American Wise Investments), Jafi Holding Corp e Dgi Real Estate Investment. Hanno speso più di 7 milioni di dollari, per poi rivenderle quasi tutte, spesso in pochi giorni, per 12,5 milioni. Elevato il margine di guadagno: 73 per cento.
Una serie di domande scritte sottoposte a Velardo dall’Espresso e dal Miami Herald riguardano, in particolare, l’ingresso di un nuovo amministratore nelle società gemmate da Apax America: Antonio Naddeo. Perché cambiare manager? Erano periodi caldi per lui in Calabria. Forse temeva incriminazioni in Italia? «No», è la risposta scritta di Velardo, che precisa: «Ritenevo non corretto che io fossi l’unico manager delle mie società negli Stati Uniti». Ha avuto problemi nel continuare le acquisizioni immobiliari dopo lo scoppio dello scandalo giudiziario in Italia? «No».
E così l’avventura immobiliare prosegue. Un esempio: l’8 agosto 2013 la Apax America 01, sotto la guida di Naddeo, compra un appartamento con due stanze da letto a West Little River, nelle vicinanze di Miami, per 74 mila dollari, e dopo appena cinque giorni lo cede alla società Lodgings Florida Corp con un ricarico del 62 per cento. Nove giorni dopo, Apax America rileva, a un isolato di distanza, una casa con quattro camere per 90 mila dollari rivendendola, dopo appena tre giorni, per 180 mila, esattamente il doppio.
Con tutte le sue iniziative finanziarie, Velardo dispone di somme consistenti. Solo dall’avventura del «Gioiello del mare» la sua società Vfi Overseas avrebbe incassato più di 11 milioni. Per l’esattezza, secondo i documenti giudiziari, 11.189.645 euro.
Lo yacht ai Caraibi, la base ad Hammamet e il fisco italiano
Dove si trovava Antonio Velardo quando, tra febbraio e marzo del 2013, sono scattati i blitz per le inchieste antimafia Black Money e Metropolis? La sua risposta è sibillina: «A quell’epoca ero in giro, stavo facendo affari all’estero». In effetti, stando ai documenti, nell’ultima settimana di aprile veleggiava con il suo yacht «La Aventura» nelle acque dei Caraibi, in particolare nel Belize. Qui, a un controllo doganale, è stato fermato per alcune ore: si era dimenticato di dichiarare il possesso di più di 20 mila dollari, per cui è stato preso e scortato fuori dalle acque territoriali.
Le carte giudiziarie raccontano però anche un’altra storia di agganci esteri. Anche se ufficialmente residente a Pompei, Velardo aveva fissato la sua base strategica in Tunisia, in un residence di Yasmine Hammamet. Una base fittizia, secondo il fisco italiano, creata per eludere le tasse. Qui Velardo sembra trasferire le sue attività fin dal maggio 2010. Ma il suo telefono è intercettato. E nei mesi successivi gli inquirenti registrano il suo commercialista mentre gli suggerisce di fermarsi in Tunisia per almeno 181 giorni, come richiede la legge, per poter essere considerato residente all’estero. L’imprenditore napoletano se la passa bene e scherza con i suoi interlocutori: «Ti invito alla mia villa, qua ti faccio impazzire». Sospetta di essere sotto inchiesta, ma sembra convinto di poter sfuggire alla giustizia italiana, tanto da insultare «quel pezzente del generale della Guardia di Finanza» che non potrà provare nulla «perché io ora sono tunisino». Ma il conteggio dei giorni di effettiva permanenza in Tunisia non è a suo vantaggio: sono troppo pochi. E in Italia doveva tornarci per forza, per seguire i suoi affari sul posto, al volante della sua Ferrari 612 Scaglietti.
Dichiarandosi tunisino, come scrivono i giudici, Velardo non presentava alcuna dichiarazione dei redditi in Italia. In Irlanda invece ha percepito, nel 2009, almeno due milioni di euro: il 50 per cento degli utili distribuiti dalla società Vfi Overseas di Dublino, la stessa quota dell’altro socio, Henry James Fitzsimons. Le indagini fiscali italiane svelano anche altri redditi riscossi all’estero. Alla fine, Velardo aderisce allo scudo fiscale, il vantaggiosissimo condono fiscale del 2009-2010, che permetteva agli evasori di mettersi in regola versando una cifra forfettaria del 5 per cento del patrimonio detenuto all’estero. Quanto ha sborsato Velardo? A questa domanda risponde così: «Quando la legge è stata approvata, ero residente in Italia. Non avevo ancora comunicato il cambiamento di residenza. Per questo il mio avvocato mi ha consigliato di pagare quella tariffa. Ma non ricordo la cifra. Dovrebbe essere contenuta nei file del processo». Secondo i documenti recuperati dall’Espresso, ha condonato poco meno di quattro milioni, esattamente 3.589.090,00 euro. Somma da cui detrarre quel 5 per cento.
Velardo e l’ombra della ‘ndrangheta
L’Espresso e Miami Herald hanno domandato ad Antonio Velardo di chiarire i suoi rapporti con personaggi legati alla ‘ ndrangheta. La sua risposta è stata netta: «Non ho nessun rapporto, né l’ho mai avuto in passato». E ha chiesto ai giornalisti di «non ripescare accuse non supportate»: «Vi chiedo rispettosamente di chiarire che entrambi i processi si sono risolti a mio favore».
L’imprenditore non ha risposto a interrogativi più specifici, ad esempio sul perché fosse stato proposto come padrino di battesimo di un figlio del genero di Pantaleone Mancuso. E ha preferito non commentare le sue stesse intercettazioni, in cui manifestava quanto fosse difficile fare affari in certe zone: «Mi hanno minacciato di morte… Mi hanno detto di non venire in Calabria, altrimenti mi ammazzano… Mi devono dare dei soldi e non vogliono pagare… Ma chi me l’ha fatto di venire in Calabria?». Quelle minacce provenivano dal «clan di Africo», un’area calabrese dominata dai Morabito Una cosca molto potente. E pronta a tutto. Perfino, come hanno documentato altre inchieste del passato, a rifornire di armi l’Ira, l’organizzazione terroristica irlandese. Forse è solo una coincidenza, ma anche il partner di Velardo, Henry James Fitzsimons, è un ex terrorista dell’Ira: era stato condannato a 15 anni per attentati dinamitardi. È ancora in contatto con lui? «Non l’ho più visto dal 2010», assicura Verlardo. La sentenza del processo Metropolis è del 2016: i giudici calabresi hanno assolto entrambi.
Sul problema generale delle infiltrazioni in Florida della ‘ndrangheta L’Espresso ha sentito uno dei massimi esperti in materia, Antonio Nicaso, autore di molti libri insieme all’attuale procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Lo studioso conferma che l’allarme è altissimo: «La ‘ndrangheta è presente negli Stati Uniti fin dal 1880. I primi boss arrivarono da Podargoni, nel cuore dell’Aspromonte, e si trasferirono a New York. Le principali zone di influenza oggi sono lo Stato di New York, quello del New Jersey e parte della costa della Florida, territori che ben si prestano, oltre che al traffico di droga, anche al riciclaggio e al reimpiego di capitali in attività imprenditoriali e immobiliari. A Tampa sono stati anche individuati server riconducibili a esponenti della ‘ndrangheta, utilizzati per gestire giochi online illegali». Proprio per queste ragioni il livello di attenzione è molto alto. Il pericolo è stato segnalato anche da un organismo del Tesoro americano, il Geographical Targeting Orders (Gto), che dal primo novembre ha rinnovato un suo provvedimento speciale: monitorare gli acquisti di proprietà immobiliari al di sopra della soglia dei 300 mila dollari. Una preoccupazione sorta dalla necessità di identificare, nelle dodici più importanti città degli Stati Uniti, gli effettivi beneficiari che si nascondono al riparo di società di comodo. Nonostante queste misure, però, gli affari a Miami del quartetto calabrese-napoletano non ha fatto scattare alcuna segnalazione da parte delle autorità americane.
Risolti tutti i problemi con la giustizia italiana, oggi Velardo si è lasciato alle spalle le vicissitudini del «Gioiello del mare»: il mega resort è stato confiscato dallo Stato con un provvedimento antimafia che ha colpito il suo costruttore, Antonio Cuppari, per un valore di 217 milioni di euro. Ultima domanda per Velardo: oggi dove vive? Risposta: «Attualmente non ho una residenza fissa».